INDICE

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AZIENDA SANITARIA REGIONALE 5 DI COLLEGNO

 DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE B

 CORSO DI RIQUALIFICAZIONE PER EDUCATORI PROFESSIONALI

 TESI DI DIPLOMA

 Candidato: Tedde Stefania

 Relatore: dott.sa Vandoni Daniela

 Anno accademico: 2000 – 2001

 

“Dalla Legge 180 alla chiusura delle aree degli ex Ospedali Psichiatrici.Da operatori a educatori.” La realtà degli Ospedali Psichiatrici di Collegno e Grugliasco. Il mutamento del ruolo dell’educatore: un percorso nel tempo all’interno delle Comuntà Alloggio dell’ex O.P.

  Indice

Introduzione

 Parte prima

Excursus storico legislativo della chiusura degli OO.PP.

-         1960/1970: i primi esperimenti di apertura degli Ospedali Psichiatrici

-         1970/1980: le esperienze più significative .

-         La Legge 180 .

-         Le tappe legislative successive alla  Legge 833/78 .

 Parte seconda

-         L’esperienza dell’ex O.P. di Collegno e Grugliasco all’entrata in vigore della Legge Basaglia ..

-         Dopo la Legge Basaglia .

-         Il Progetto Handicappati

-         Il ruolo delle Comunità interne .

-         Il tramonto delle Comunità alloggio

-         Strutture alternative all’ex O.P.

-         Tabella riassuntiva apertura comunità territoriali ..

Parte terza

-         L’esperienza lombarda

Parte quarta

-         Gli operatori all’interno dell’ospedale psichiatrico .

  Parte quinta

-         L’educatore oggi: un percorso dalla formazione di base ai corsi di riqualificazione, dalla pratica alla teoria e dalla teoria alla pratica .

-         L’aziendalizzazione

-         Le competenze .

-         Lavorare in èquipe

-         Un codice deontologico per l’educatore professionale

 -         Conclusioni

        Bibliografia

 

 Introduzione

 Al fine di sviluppare l’argomento specifico, ossia la storia della chiusura degli OO.PP. di Collegno e Grugliasco e, parallelamente l’evoluzione che ha visto come protagonisti gli educatori operanti in quest’area, ho ritenuto necessario partire da una premessa sociale e storica.

Il primo punto sviluppato riguarda, infatti, il clima sociale che determinò e permise l’emanazione della Legge Basaglia.

Clima che diede l’avvio ad una vera e propria rivoluzione culturale, ancora non del tutto “assorbita”.

Ho ritenuto opportuno, poi, fare un elenco delle tappe legislative che hanno seguito la legge 180, dimostrando che il processo di superamento dell’ospedale psichiatrico non é ancora giunto a conclusione definitiva e che le alternative “pensate” per chi ha subito l’orrore del manicomio non sempre risultano adeguate.

 Nel secondo capitolo il campo di analisi viene ristretto agli OO.PP. di Collegno e Grugliasco. Vengono ripercorsi i passi principali: la nascita delle comunità alloggio, il Progetto Handicappati, la comparsa sulla scena del “privato sociale”, le normative regionali, l’uscita sul territorio dei primo nuclei di utenti provenienti dall’Ospedale Psichiatrico.

In questo capitolo viene spiegato qual era il ruolo riconosciuto alle comunità alloggio dell’area, la filosofia sulla quale si basava la loro esistenza, la loro finalità terapeutico – riabilitativa e i motivi che ne hanno segnato il destino.

Viene fatto un accenno, inoltre, al genere di strutture alternative che la Regione Piemonte, in accordo con la legislazione vigente, ha pensato idonee per accogliere gli ospiti delle suddette comunità, una volta realizzato il definitivo sfollamento dell’area manicomiale.

Ho quindi tentato di fare un confronto con la realtà lombarda, nella quale fu dato l’avvio a uno tra i primi esperimenti di superamento dell’ospedale psichiatrico precedente alla Legge Basaglia.

Il materiale, trovato principalmente su Internet, fa emergere la tardiva applicazione della 180 e rivolge molte critiche all’operato lombardo.

 Parallelamente al percorso verso la chiusura degli OO.PP., si sviluppa quello di crescita professionale della figura dell’educatore, che passa dall’essere principalmente un “tutto – fare” dotato di una discreta dose di buona volontà, alla consapevolezza del ruolo ricoperto e ai mille significati che si possono dare alla parola “e-ducazione”.

Dall’operatore “naif” all’educatore formato.

Percorso che, in entrambi i casi, si é rivelato nel tempo piuttosto accidentato.

Parte prima

Excursus storico legislativo della chiusura degli OO.PP.

  “... risuonò il grido non più manicomi e per poco non lo si prese sul serio...!”

 Andrea Verga, “Il manicomio e la famiglia”, 1878

“Non abbiamo chiesto noi di vivere qui. Sono venuti a prenderci nelle nostre case gli infermieri o le guardie, tanti anni fa. Qualcuno era bambino quando è entrato qui dentro. Noi non ci volevamo venire.

Poi ci siamo abituati, intanto gli anni sono passati: da un reparto all’altro, da una comunità all’altra. Come pacchi postali: nessuno ha mai chiesto il nostro parere. Adesso abitiamo qui; paghiamo l’affitto ed il mangiare con i nostri soldi ed è quindi nostro diritto essere interpellati prima di decidere qualsiasi cosa che ci riguardi.”

 Lettera dei soci dell’Associazione Arcipelago, ottobre 1996

 Prima di affrontare più specificatamente l’argomento della tesi, mi è parso opportuno ripercorrere le tappe legislative che hanno dato l’avvio al “superamento degli Ospedali Psichiatrici” e fare un accenno al clima sociale e culturale che ha reso possibile questa grande “rivoluzione”.

Già in tempi precedenti alla promulgazione della Legge 180, grazie a figure “carismatiche” e al loro lavoro sul campo (Edoardo Balduzzi a Varese, Franco Basaglia a Gorizia, Diego Napolitani a Milano, il rinnovamento dell’Ospedale “Cerletti” di Parabiago a Milano...), era emersa la vera funzione dell’ospedale psichiatrico.

Non era più possibile negare che l’istituzione manicomiale aveva sempre e solo ricoperto un ruolo di controllo sociale, legittimato dalla Psichiatria e dall’intera società dei “normali”, retto su rigidi rapporti di forza e potere.

Quindi, non curare la malattia mentale, ma isolare ciò che fa nascere in noi la “paura di ciò che crediamo incontrollabile... Con il manicomio c’era la rinuncia al cambiamento. C’era una sorta di affermazione perversa della diversità ontologica della persona ivi ricoverata. A suo modo una forma di rispetto di questa irrazionalità senza limiti e tempo che, se non poteva essere modificata, non poteva neanche essere lasciata libera di travolgere l’ordine razionale delle cose. Lo psichiatra manicomiale non ha mai creduto alla possibilità di normalizzare le sue vittime. Le riteneva irrecuperabili alla vita ordinaria.” (1)

L’intervento, anche quello medico, veniva centrato esclusivamente sulle manifestazioni del disagio (specie quelle più eclatanti e di difficile gestione), senza curarsi delle cause che le determinavano.

Per superare definitivamente l’ospedale psichiatrico non è sufficiente aprirne o demolirne le mura, ma è necessario superare la cultura del “controllo sociale del diverso”, cultura profondamente radicata nella società tanto da legittimare, da circa due secoli,  l’esistenza di istituzioni totali quali il manicomio.

Oggi è un concetto risaputo e condiviso che il contesto, l’ambiente esterno  influenza l’uomo in modo determinante.

Ma in una società che, senza porsi problemi, continuava a legittimare l’esistenza del manicomio, questo concetto non poteva certo darsi per acquisito.

L’Ospedale Psichiatrico, come le carceri, aveva un significato culturale – politico, diffuso in ambiti e contesti diversi (la famiglia, la fabbrica, la scuola...).

Il movimento sociale degli anni Sessanta fu un movimento di massa e grazie ad esso, e alla costituzione di Associazioni quali Medicina Democratica, Magistratura Democratica, Psichiatria Democratica, Associazione per la Lotta Contro le Malattie Mentali, fu possibile l’avvio della lotta antimanicomiale.

Basaglia sosteneva che occorreva porre al centro della ricerca l’uomo, i suoi bisogni e il suo “diritto ad esistere”, occorreva che l’intera società riconoscesse nel manicomio una “forma di violenza sottile”, attraverso la quale  l’individuo viene manipolato, invalidato, mercificato, ridotto a cosa, a puro strumento. (2)

Tra il 1960 e il 1970 viene dato l’avvio ai primi esperimenti di apertura degli OO.PP., spesso attraverso la costituzione di Comunità Alloggio site all’interno delle aree manicomiali.

Il Movimento di de-istituzionalizzazione si sviluppa in Italia già a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, ma solo nel 1962 venne avviato un primo tentativo: il rinnovamento dell’O.P. di Gorizia, attuato da Franco Basaglia, che portò alla costituzione della prima Comunità Terapeutica italiana e all’apertura, nel 1968, del primo Centro di Igiene Mentale territoriale.

Basaglia capì, ben presto, che nel percorrere la strada del rinnovamento strutturale degli Ospedali Psichiatrici, organizzando al loro interno le Comunità Terapeutiche, si sarebbe corso il rischio di far diventare queste ultime “una semplice,  nuova modalità di organizzarsi dell’assistenza psichiatrica, dove l’elemento difensivo da parte degli organizzatori ha ancora un gioco determinante.” (2)

Per arrivare al definitivo superamento della istituzione manicomiale occorre demolire, rivedere, mettere in crisi il ruolo dell’èquipe curante.

Le competenze professionali devono obbligatoriamente rinnovarsi.

Diventa evidente che scopo primario dell’Ospedale Psichiatrico era sempre stato il controllo sociale. Attuare praticamente il reinserimento sociale era quantomeno improbabile, perché erano scarse le soluzioni alternative sul territorio.

Grazie alla costituzione delle prime Comunità Terapeutiche all’interno degli Ospedali Psichiatrici, si era data ai “folli”, per la prima volta, l’opportunità di esprimere i propri bisogni personali tra cui quello di rientrare a far parte della società “al di là del muro”. Se non si fosse realizzato concretamente un radicale mutamento nell’approccio alla malattia mentale e alla sua cura non si sarebbe stati in grado di poter soddisfare quei bisogni.

Il rendere più umana l’istituzione può essere, in fondo, un modo per continuare a legittimarla.

L’esperienza di Gorizia cessa nel momento in cui diventa “politica”, ponendo in discussione il ruolo sociale del manicomio, la risposta da parte della “società dei normali”, l’esclusione sociale.

Certo è che alla nuova corrente anti manicomiale si deve attribuire il merito di aver introdotto concetti rivoluzionari quali la territorialità, la continuità terapeutica tra O.P. e territorio, il lavoro di èquipe, la formazione finalizzata alla creazione di nuove figure professionali. Viene inoltre sottolineata l’importanza della prevenzione.

La Legge 431/68 (Legge Mariotti) equipara gli operatori dei manicomi a quelli ospedalieri, introduce le figure degli assistenti sociali e degli psicologi, introduce la possibilità dei ricoveri volontari, attiva i Centri di Igiene Mentale territoriali. Viene inoltre abrogato l’articolo 604 del Codice Rocco (1931) che prevedeva l’iscrizione automatica dei ricoverati in O.P. sul Casellario Giudiziario.

Non veniva assolutamente messo in discussione il senso del manicomio, che continuò, di fatto, ad essere uguale a se stesso.

  Tra gli anni 1970 – 1980 le esperienze più significative del movimento anti istituzionale raggiungono la loro piena maturazione.

Nel 1973 si arriva alla costituzione di Psichiatria Democratica che raccoglie tutte le esperienze innovatrici del trattamento della malattia mentale. La critica viene principalmente rivolta alla psichiatria tradizionale che ”sorge primariamente in un ambito politico-giuridico-amministrativo la gestione del quale viene poi affidata ai medici” (3),  ponendosi come pratica di controllo sociale piuttosto che di intervento terapeutico.

“L’intollerabilità e la disumanità delle forme pratiche con le quali questo intervento si è tradizionalmente presentato sono state nella quasi totalità dei casi la molla che ha spinto alcuni dei detentori del potere all’interno della istituzione a prendere coscienza della reale natura del suo funzionamento e della necessità di un suo rovesciamento pratico.” (4)

Alla metà degli anni Settanta il destino della istituzione manicomiale era già delineato e le basi del suo superamento, almeno da un punto di vista teorico, erano state gettate.

Dal punto di vista dell’applicazione pratica di questa “rivoluzione”, il primo passo fu il Disegno di Legge relativo alla istituzione del Sistema Sanitario Nazionale, che si occupava anche dell’assistenza psichiatrica, stabilendo l’importanza della prevenzione, l’inserimento dei servizi psichiatrici all’interno di quelli generali   e nuovi principi in materia di Trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.).

Questo Disegno di Legge venne accolto con grosse riserve da parte di  Psichiatria Democratica, la quale, però, si pronunciò contemporaneamente a sfavore del Referendum sulla Legge del 1904, per la quale i Radicali avevano già raccolto il numero sufficiente di firme.

Sulla base di tali avvenimenti, il Parlamento, in tempi rapidissimi, approvò una nuova Legge Stralcio (13.5.1978 n.180) sul problema del trattamento psichiatrico.

La Legge 180

Le radicali trasformazioni avvenute tra gli anni Sessanta e Settanta nel campo della psichiatria, vennero recepite da questa Legge, accolta poco dopo nella Legge 833/78, con la quale veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale.

Sul piano legislativo viene sancito il passaggio dall’assistenza unicamente basata sul ricovero in O.P. a una più complessa organizzazione territoriale.

La psichiatria viene così inserita nell’ambito sanitario e i ricoverati, anche nel caso di TSO, conservano tutti i diritti politici e civili.

La centralità dell’intervento passa dal manicomio ai servizi psichiatrici territoriali; le strutture psichiatriche di ricovero vengono collocate all’interno degli ospedali generali con l’istituzione dei Servizi Psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC).

Viene sancita l’abolizione e la chiusura definitiva degli OO.PP.

La data di cessazione degli OO.PP. come tali viene fissata al 31.12.1980.

L’assistenza psichiatrica passa dalla competenza della Provincia a quella della Regione.

Gli interventi obbligatori vengono considerati eccezionali e di breve durata.

 Da subito emersero le grandi lacune che avrebbero reso la Legge 180 di difficile attuazione, considerando che nessuna struttura alternativa era stata precedentemente preparata,  non erano state organizzate èquipes psichiatriche negli ospedali generali, gli operatori psichiatrici non vennero adeguatamente formati allo scopo di affrontare questi radicali cambiamenti, le famiglie degli ex degenti non vennero sensibilizzate.

L’immediata risposta si convertì in dimissioni spesso indiscriminate e frettolose, trasferimenti in altro genere di istituzioni (case di riposo, istituti, ospizi, cronicari), in quanto la Legge 180 “è stata applicata solo nella parte relativa alla dimissione del paziente, mentre, per funzionare e per non vanificare quanto di innovativo portava, avrebbe dovuto creare tutti quei servizi di territorio che mai sono stati creati o solo in minima parte”. (5)

Va sicuramente riconosciuto alla Legge 180, al di là dei vuoti lasciati, il merito di aver affrontato e tentato di fornire per la prima volta soluzioni pratiche al problema del collocamento degli ex degenti degli OO.PP. in strutture residenziali (le Comunità Terapeutiche), intese come soluzione abitativa temporanea che, sfruttando la valenza terapeutica del “gruppo” e lavorando sulla riacquisizione della propria storia, della personalità del singolo e del proprio ruolo personale e sociale, si ponevano come il primo passo verso l’inserimento definitivo nella società.

Il rischio, d’altro canto, era quello di utilizzare questo tipo di struttura come una sorta di deposito per quei pazienti “cronici” che non potevano essere gestiti dai servizi territoriali.

Di fatto, molti Ospedali Psichiatrici, dopo l’emanazione della 180, vennero ristrutturati e adibiti a “comunità” ad uso di quei pazienti ritenuti ormai irrecuperabili.

 Le tappe legislative successive alla Legge 833/1878

             Occorsero numerosi anni e svariati interventi legislativi affinchè fosse reso palese il cambiamento che Basaglia già auspicava prima del 1978.

            Riassumo qui di seguito le principali tappe:

 ·       L.R. 23 ottobre 1989, n.61: “Disposizioni per l’assistenza dei malati di mente e per la riorganizzazione dei servizi psichiatrici;

 ·       D.L. 30 dicembre 1992, n.502: “Riordino della disciplina in materia Sanitaria”;

 ·       Progetto Obiettivo Nazionale per la tutela della salute mentale 1994 – 1996, approvato con il DPR del 7.4.1994: definisce prioritaria la costituzione, all’interno di tutte le ASL, del Dipartimento di salute mentale (DSM), di cui definisce le funzioni, le competenze e l’articolazione in SPDC, Centri di salute mentale (CSM), strutture semiresidenziali pubbliche e private (Centri Diurni e Day Hospital) e strutture residenziali pubbliche e private. Non affronta in specifico la questione manicomiale, se non fissando, tra gli obiettivi da realizzare nel triennio, la promozione di progetti specifici per il “superamento del residuo manicomiale”.

L’attuazione di questo Progetto Obiettivo risultò del tutto disomogenea sul territorio nazionale, anche per la mancata istituzione di un organo deputato al  monitoraggio.

 ·       Legge 23 dicembre 1994, n.724: viene imposta, per la prima volta, alle Regioni la chiusura dei “residui” dell’ex O.P. entro il 31.12.1996.

Si rende necessario, inoltre, vietare l’uso delle aree ex O.P. per la costruzione di nuove soluzioni abitative, fatta eccezione per i pazienti geriatrici e disabili, “ceduti” ai servizi socio-assistenziali;

 ·       Legge 23.12.1996, n. 662, collegata alla Finanziaria del 1997, reca “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. Viene confermata la data del 31.12.1996 come termine ultimo per la chiusura degli OO.PP. e si impone alle Regioni di adottare entro il 31.1.1997 idonei strumenti di pianificazione inerenti la tutela della salute mentale e finalizzati alla effettiva chiusura dei “residui manicomiali” entro l’anno.

La legge introduce una serie di sanzioni rivolte alle Regioni inadempienti, che risultarono essere, in alcuni casi, l’unica spinta verso il percorso del superamento dell’O.P.

Il Ministero della Sanità istituisce l’Osservatorio per la tutela della salute mentale, con il compito di verificare l’operato delle varie Regioni.

 Secondo dati forniti dal Ministero della Sanità, dopo il 1980, 80.000 pazienti hanno lasciato gli OO.PP. Un terzo è deceduto, altri sono stati inseriti in strutture alternative (comunità terapeutiche o riabilitative, R.S.A., istituzioni geriatriche o strutture private).

Lo stesso Ministero censì (31.12.1996) 12.109 degenti ancora ricoverati presso i 75 Istituti psichiatrici pubblici (i residui manicomiali, appunto) di cui 6.566 con problematiche di tipo psichiatrico e 5.543 con problematiche geriatriche o di disabilità.

Dopo circa un anno i degenti in attesa del superamento sono ancora 6.658.

Solo l’1,7% dei “fuoriusciti” viene accolto nelle famiglie d’origine.

Occorre ricordare, a questo riguardo, che il ricovero in ospedale psichiatrico era spesso motivo di definitive rotture con l’ambiente familiare di origine, per cui, nella maggior parte dei casi, il rientro in famiglia era un’ipotesi improponibile.

 ·       D.G.R.356-1370 28.01.1997: indica i parametri strutturali e di personale minimi per i servizi psichiatrici;

 ·       Legge 27.12.1997 n. 449 (di accompagnamento alla Finanziaria per il ’98): sposta la data per la chiusura ultima degli OO.PP. al 31/12/1998 per i pazienti di fascia psichiatrica e al 31/12/1999 per quelli psico-organici e psico-geriatrici;

 ·       Progetto Obiettivo 1998 – 2000 (10 novembre 1999): concentra l’attenzione sulla necessità di definire in modo più chiaro i “compiti” dei DSM, individuandone gli obiettivi, gli interventi, le politiche e i programmi. Viene sottolineata la priorità della necessità di trovare risposte adeguate ai disturbi mentali gravi, ma le indicazioni che vengono date risultano essere del tutto generali e di massima.

 ·       D. Lgs. 19 giugno 1999 n. 229: “Norme per la razionalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale”, completa il Progetto Obiettivo.

 A venti anni di distanza dalla promulgazione della Legge Basaglia, si erano modificate radicalmente le condizioni “di partenza”: la popolazione manicomiale risulta essere invecchiata e “cronicizzata” oltre misura: il cambiamento fa un po’ paura a tutti, malati e operatori, entrambi troppo coinvolti, forse, nelle reti della istituzione.

Il percorso verso il superamento dei manicomi venne inoltre intrapreso in tempi diversi dalle varie Regioni, andando a comporre un quadro particolarmente disomogeneo.

Molte chiusure affrettate si realizzarono senza basarsi su progetti di ristrutturazione dell’assistenza psichiatrica, al solo scopo di evitare le sanzioni finanziarie stabilite per legge per le Regioni che non attuavano il processo di superamento.

 Su quanto sia avvenuto negli ospedali psichiatrici dopo la riforma del 1978, sul destino di chi è stato dimesso, purtroppo, i dati sono veramente scarsi.

Sono molti gli autori che concordano sul fatto che, fatta eccezione per alcuni esempi, la rivoluzione teorica della Legge Basaglia si sia tradotta al lato pratico, in esperimenti basati più sull’improvvisazione che su progetti ben definiti e chiaramente “finalizzati” al raggiungimento di specifici obiettivi e, in numerosi casi,  nel mancato reinserimento sociale dei pazienti.

Le dimissioni si sono spesso tradotte con lo “scaricare” i pazienti ad altre strutture, spesso con forte connotazione istituzionale, senza seriamente agire in base ad un percorso individuale, o agendo in base a progetti non rispondenti alle singole esigenze, compilati da operatori che non conoscono il “caso” in modo approfondito, ma che sentono l’urgenza di avvicinarsi il più rapidamente possibile all’obiettivo dello sfollamento delle aree ex O.P.

 Nel documento conclusivo dell’indagine conoscitiva della XII Commissione Affari Sociali di Montecitorio (29.7.1998), vengono dati alcuni “suggerimenti”, utili al percorso di cui si sta parlando.      Tra questi si auspica il riconoscimento dell’importante  ruolo giocato dal “privato sociale”, spesso poco coinvolto nel momento della progettazione e della verifica, ma considerato, nella maggior parte dei casi, come “manovalanza a basso costo”. Si auspica altresì l’avvio delle riqualificazioni del personale degli ex OO.PP. e la compilazione, da parte delle ASL, di relazioni semestrali sullo stato di attuazione della chiusura e degli interventi messi in atto, al fine di poter creare una sorta di archivio dei dati.

 Note 1

 (1)               Giuseppe Bucalo “Malati di niente. Manuale minimo di sopravvivenza psichiatrica” , Edizioni Grafton 9 (Bologna) – Cox 18 (Milano), 1996.

 (2)               Franco Basaglia (a cura di) “L’istituzione negata”, Einaudi, Torino, 1968.

 (3)               F. Giacanelli “L’equivoco della neuropsichiatria” in Inchiesta cit. pag. 58.

 (4)               Romano Canosa “Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi”, Feltrinelli, 1979.

 (5)               Atti del Convegno “A vent’anni dalla Legge 180: l’Ospedale Psichiatrico a Racconigi fuori e dentro le mura” – 21 Novembre 1998 – intervento del prof. D. Viberti, Assessore ai servizi Sociali della Provincia.

 

Parte seconda

L'esperienza dell'ex O.P. di Collegno e Grugliasco all'entrata in vigore della Legge Basaglia

 ·                   1969: vengono aperte le prime Comunità Terapeutiche. Nell’Ospedale di Via Giulio dal dott. Giuseppe Luciano e nell’Ospedale di Collegno dal dott. Enrico Pascal;

 ·                  1970:  

-   viene chiuso l’Ospedale di Via Giulio a Torino;

-         vengono attuati i servizi psichiatrici di zona e gli ambulatori psichiatrici territoriali;

-         un gruppo di operatori si inserisce nei Reparti infantili di  Villa Azzurra (Grugliasco), mettendone in discussione l’organizzazione e i “metodi di intervento” che prevedevano ancora le punizioni e la contenzione fisica;

-         Viene pubblicato il volume “La fabbrica della follia” a cura dell’Associazione Lotta contro le malattie mentali. Il libro, nato a seguito di un lavoro di ricerca e documentazione svolto dalla stessa Associazione, sollevò un grande scalpore, denunciando le drammatiche condizioni in cui si viveva all’interno dell’O.P. di Collegno e Grugliasco.

 ·       1973: nel mese di luglio la Provincia di Torino emana un protocollo aggiuntivo che, pur non risolvendo il problema legislativo, costituisce un minimo di copertura per le strutture territoriali già esistenti, vengono riconosciute le èquipes territoriali già operanti, si stabiliscono le norme per l’istituzione delle nuove, vengono assegnate nuove sedi, mezzi e personale e istituita la figura professionale dell’infermiere psichiatrico, che sostituì quella dell’infermiere manicomiale;

 ·       1974: “Viene chiuso l’Istituto Psico Medico Pedagogico Villa Azzurra, nell’Ospedale di Grugliasco. Fino ad allora i bambini handicappati fisici o psichici gravi erano ricoverati in O.P.: a Villa Azzurra erano ricoverati nel 1970 circa sessanta bambini dai tre ai quattordici anni. I bambini sono in parte restituiti alle famiglie di origine, in parte sono inseriti in altri istituti, altri vengono trasferiti, a cura della Provincia di Torino, nella villa del Mainero, ristrutturata per ospitarli.” (1)

 L’avvio dell’Istituto Psico Medico Pedagogico del Mainero rappresentò la prima concreta realizzazione del percorso verso la deistituzionalizzazione, la prima risposta veramente alternativa all’O.P.

Qui vennero accolti i casi più gravi, la maggior parte dei quali provenivano dal Reparto “B” di Villa Azzurra, il reparto degli “ineducabili”.

Il lavoro degli operatori diventa sempre più di tipo infermieristico – assistenziale e ciò rappresentò una delle cause che determinarono la chiusura di questa esperienza.

L’agire quotidiano si fa sempre più “faticoso”, meno gratificante e, soprattutto, non è più possibile vedere delle evoluzioni, delle prospettive future che permettono di sentire come realizzabile (“proprio”) il progetto iniziale.

A mio parere la storia del Mainero è particolarmente rappresentativa, perché identica, nel suo evolversi, alle storie di molte comunità che, negli anni, si sono dedicate a questo particolare genere di utenza che assomma alle patologie “di base” i risultati ancor più patologici della istituzionalizzazione, breve o lunga che sia.

Il Mainero venne smantellato e i ragazzi trasferiti presso l’IPIM in un servizio che, fino al 1982, venne chiamato “Repartino ex Mainero”, per la sua organizzazione di tipo prettamente ospedaliero.

 ·       1976: vengono costituite due Comunità alloggio nell’Ospedale di Grugliasco;

 ·       1977: l’Amministrazione Opera Pia OO.PP., in una sua Deliberazione del 16.5.1977 introduce e definisce per la prima volta il modello delle comunità ospiti e concede alcune strutture dell’O.P. quali soluzioni abitative temporanee per i pazienti in condizioni di dimissibilità, in attesa di un reinserimento territoriale.

 ·       1978: “Tra i vari problemi relativi al progetto di superamento degli OO.PP. il prof. Agostino Pirella, Sovraintendente agli OO.PP., sottolinea quello degli anziani e degli handicappati. Il problema dell’assistenza agli ex ricoverati in O.P. nel corso degli anni è condizionato dal conflitto tra chi ripropone una gestione di tipo ospedaliero e chi [...] una gestione fondata sull’apertura di Comunità Alloggio con finalità risocializzanti e riabilitative, gestite in modo non istituzionale. Nella prima bozza per un progetto di superamento degli OO.PP. di Torino il prof. Pirella propone la costituzione di Comunità Protette per handicappati, con condizione non istituzionale e finalità riabilitative, propone ed attua un censimento degli handicappati ricoverati nei reparto dell’O.P.” (1)

 ·       Agosto 1979: il prof. Agostino Pirella redige la “Bozza per un progetto di superamento degli OO.PP. di Torino” e la consegna all’Associazione lotta contro le malattie mentali.

Dalla bozza emerge che “... sulle questioni degli anziani e degli handicappati degenti in O.P. si debbono evitare i rischi della semplificazione e delle soluzioni puramente organizzative... Può essere prevista, nell’ambito di un’attenta analisi delle possibilità ricettive del territorio, la costituzione di comunità protette di pochi soggetti gravemente handicappati e regrediti, con conduzione non istituzionale e finalità riabilitative.” Pirella prosegue sostenendo che occorre “spezzare la tendenza, tipica dell’istituzione, a compattare in una cattiva unità ed in una falsa specificità elementi, problemi, bisogni eterogenei.” (2)

 Dopo la Legge Basaglia

 ·       1980: presso il Reparto 6 dell’Ospedale “Ville Regina” viene costituita, grazie al dott. Luigi Tavolaccini e con la collaborazione della Provincia di Torino, la prima Comunità per handicappati. All’interno dell’èquipe compare, per la prima volta, accanto agli infermieri che volontariamente avevano scelto di condividere questa esperienza, la figura dell’Educatore Professionale, “portatore di nuove tendenze e di una nuova visione del malato, sensibile alle esigenze di apertura e di cambiamento dell’istituzione.”(A. Gianara, L. Tavolaccini) (3)

 Venne subito presa in considerazione l’ipotesi di costituire delle Comunità Alloggio per gli ex degenti del manicomio, diventati ora “ospiti”. Come primo passo verso l’attuazione del superamento dell’O.P., le suddette comunità vennero pensate e realizzate utilizzando gli spazi resi disponibili, sia a Collegno che a Grugliasco, grazie alla diminuzione dei ricoveri e all’aumento delle dimissioni.

Vennero “scelti” gli ospiti destinati a queste nuove soluzioni abitative: essenzialmente coloro che necessitavano con maggior urgenza di non essere più sottoposti ai regimi rigidi dell’istituzione, coloro che potevano sostenere una nuova organizzazione di vita, finalizzata all’acquisizione dell’autonomia. Venne soppresso il regime custodialistico, dato ampio spazio alla riabilitazione e alla risocializzazione; la presenza di personale infermieristico e sanitario venne mantenuta solo per lo stretto indispensabile.

 Nel 1980 nasce “La Nuova Cooperativa”, cui aderiscono in qualità di soci numerosi ex degenti dell’Ospedale Psichiatrico. La cooperativa si pone “... in netta antitesi rispetto alla terapia occupazionale come soluzione pseudo-lavorativa, che perpetua forme di emarginazione. La nostra esperienza supera la pratica del laboratorio protetto, che ripropone una logica di separatezza fra le persone in difficoltà e il contesto sociale.” (4)

All’interno degli ospedali psichiatrici era pratica corrente sfruttare il lavoro dei ricoverati, che venivano impiegati nei servizi più umili. A ciò veniva dato il nome di “ergoterapia”.

In tempi precedenti la nascita della “Nuova”, il lavoro di pulizia all’interno dei reparti, vennero appaltati a tre Cooperative esterne, a cui venne imposta l’assunzione di alcuni ex degenti. Questa esperienza si concluse in modo fallimentare, ma permise ad alcuni tra i partecipanti di acquisire la volontà di ripetere l’esperimento fondando una nuova cooperativa.

 ·       Gennaio 1981: viene dato l’avvio alla Riforma Sanitaria che produce nel territorio di Collegno e Grugliasco la costituzione della USL 24 e delle altre USL della provincia di Torino.

Viene istituito un apposito Ufficio di Coordinamento Comunità.

L’autonomia amministrativa delle UU.SS.LL. permette loro ampia discrezionalità sull’utilizzo del personale delle comunità.

 ·       Marzo 1982: il Piano Socio Sanitario regionale definisce l’impegno delle UU.SS.LL. sede di Ospedali psichiatrici a costituire un’area socio – sanitaria che si proponesse come strumento di trasformazione e superamento delle istituzioni.

 L’Assessorato alla Sanità della Regione Piemonte, il Comune di Torino e le UU.SS.LL. 1/23 e 24 preparano il quadro formale del Progetto di Superamento degli OO.PP.  Tale progetto, che utilizza un finanziamento speciale CEE, vuole offrire la possibilità di soluzioni abitative e lavorative territoriali, la garanzia di un supporto terapeutico con l’apertura di nuovi centri di appoggio e l’organizzazione di corsi di riqualificazione professionale per i pazienti.

 Nell’ottobre 1982 nasce la Cooperativa Progetto che gestirà, in collaborazione con la Nuova Cooperativa un programma di formazione professionale per gli ex degenti e si occuperà del reinserimento degli stessi nel mondo del lavoro.

 ·       1983: vengono avviate altre Comunità Alloggio per handicappati psicofisici dimessi dai reparti. “Inizia il Progetto Handicappati sorto per restituire dignità a persone che un tempo erano ricoverate in manicomio in modo indiscriminato.” (1)

 Nello stesso anno inizia l’attività del Centro residenziale Il Barocchio.

 ·       Nel 1984 vennero chiusi gli ultimi reparti dell’ospedale di Grugliasco.

 ·       Nel 1985 venne proposto al C.d.G. dell’U.S.S.L. 24, con esito positivo, di devolvere agli ospiti delle comunità di Grugliasco un sussidio che coprisse le spese alimentari e i lavori di manutenzione, fino ad allora a carico dell’A.S.S.L.

 Il 28.3.1985 nasce l’Associazione Primavera 85: gli operatori hanno il compito di fornire un supporto alla conduzione dell’Associazione e, al contempo, quello di lavorare per stimolare l’autonomizzazione degli ospiti attraverso, ad esempio, progetti finalizzati all’autogestione dei consumi e del tempo libero.

 Nel 1989 le persone ancora ricoverate presso l’ospedale psichiatrico di Collegno erano 310, ospitate in circa trenta comunità intraospedaliere.

L’ex ospedale psichiatrico di Grugliasco è diventato area socio-sanitaria ormai avviata verso l’estinzione. Le 80 persone che vi rimangono (delle 105 presenti nel 1984) godranno del progetto che prevede la trasformazione dell’area in parco pubblico e le comunità in civili abitazioni a loro destinate.

 Tra il 1983 e il 1990 il Centro Sociale Basaglia ha seguito più di 250 persone, di cui un centinaio sono uscite dall’area dell’ospedale psichiatrico per andare a vivere sul territorio. Il Centro ha continuato a lavorare sui casi individuali, riuscendo a smussare le rigidità provocate dell’istituzionalizzazione.

 ·       1992: apre la comunità interna “7 maschile”, la prima comunità psichiatrica dell’area di Collegno la cui gestione viene affidata a una cooperativa sociale.

 ·       1995: dalle comunità interne escono altre otto persone che costituiscono a Pianezza una convivenza dalla quale nascerà l’Associazione “Villa otto stelle”.

Il Progetto Handicappati

 A seguito del censimento effettuato nel 1980 dal prof. Pirella, consegnato all’Assessore alla Sicurezza Sociale della Provincia di Torino, emerse che tra i ricoverati dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collegno e Grugliasco, risultavano 190 portatori di handicap fisico o psicofisico, suddivisi in base all’appartenenza alle diverse USL e all’età.

 La loro presenza viene spiegata dal fatto che il manicomio aveva fino ad allora rappresentato un “contenitore” indistinto di patologie diverse, in cui confluivano tutti quei casi non gestibili in altre strutture o all’interno delle famiglie di origine.

Non vi era distinzione nei trattamenti rivolti alle differenti patologie, il che, tradotto in termini pratici, significa che, all’interno dei reparti, le esigenze e i bisogni personali venivano ignorati, appiattiti dalla necessità di mantenere costante la “routine”, scongiurando gli incidenti di percorso.

E’ certo che le esigenze di “cura” di un malato affetto da schizofrenia, il suo percorso riabilitativo, le sue potenzialità inespresse sono ben diverse da ciò che una patologia di handicap richiede. Con le trasformazioni apportate dalla Legge Basaglia, non si poteva più ignorare questa distinzione, era diventato necessario distinguere le patologie, creare gruppi omogenei in cui fosse possibile parlare di “riabilitazione”, senza continuare a ritenere che l’importante fosse esclusivamente mantenere la funzione di “contenitore”.

L’apertura degli OO.PP. aveva rivelato che una grande fetta della popolazione ricoverata era costituita da portatori di handicap fisico o psico-fisico, da ritardo mentale e da altre patologie non strettamente di tipo psichiatrico.

Per questa “popolazione” risultava estremamente difficile pensare a soluzioni abitative che fossero realmente alternative ai reparti garantendo, al contempo, una sufficiente “protezione”.

 Nel succitato documento il prof. Pirella mise in risalto la particolare situazione di questi ospiti, ricoverati in O.P. quasi sempre in giovanissima età e vissuti per decenni in una situazione di segregazione e in totale mancanza di stimoli di crescita. 

“...per questi soggetti, le esperienze fondamentali della socializzazione, dei rapporti familiari, della scoperta del mondo circostante e della propria motricità, sono state bloccate, represse, distorte da situazioni rigide di costrizione psicologica, motoria ed affettiva. Spesso a questa condizione si sono aggiunti traumi e lesioni da aggressioni o incidenti derivanti dall’affollamento e dalla segregazione in condizioni simili a quelle carcerarie. E’ importante che queste condizioni non vengano ignorate, non si cerchi cioè di metterle fra parentesi nel momento in cui si programmano delle soluzioni alternative all’internamento manicomiale.” (5)

 E’ proprio grazie alla istituzione del Progetto Handicappati che venne resa possibile, almeno sulla carta, l’ipotesi, anche per questi pazienti, di iniziare un percorso verso l’autonomia e l’uscita dai reparti del manicomio.

“In realtà queste comunità sono state utilizzate come espediente per far uscire dai reparti persone per le quali non era pensabile una soluzione, riabilitativa e abitativa, diversa. Il ricorso alle Cooperative è stata l’unica via realisticamente percorribile per garantire agli utenti il rispetto di un percorso riabilitativo altrimenti impossibile di fatto. Le cooperative hanno svolto, da una parte, una funzione di integrazione nei confronti del servizio pubblico; dall’altra hanno costituito una valida alternativa agli istituti o ad altre situazioni di parcheggio istituzionale.”  (6)

 La prima Comunità Alloggio venne avviata, come già prima accennato, presso il reparto 6 delle Ville Regina Margherita, con  otto pazienti alcuni dei quali molto gravi.

Nell’avviare la Comunità si creò un collegamento con gli operatori del C.S.T. di Corso Toscana.

Tre educatori della Provincia iniziarono a lavorare in O.P. per tre volte alla settimana, al fine di arrivare a una specifica conoscenza dei casi (la compilazione del “romanzo di vita”).

All’interno della Comunità la gestione della quotidianità era ancora totalmente affidata agli infermieri che, comunque, avevano di molto cambiato il loro tipo di intervento, diventando più autonomi e creando relazioni affettive con i singoli ospiti.

 Ben presto si iniziò a lamentare, da parte del personale e dei medici responsabili, la carenza di operatori. Questo problema non permetteva l’evoluzione dell’esperienza e il passaggio della comunità sul territorio.

Il legame con l’ospedale psichiatrico, inoltre, continuava ad essere troppo stretto: i pasti arrivavano da una mensa esterna, così come altri servizi (lavanderia, guardaroba, attrezzature) continuavano ad essere forniti dall’USL.

Parallelamente si erano ipotizzate alcune soluzioni di uscita che, nel tempo, si rivelarono non praticabili (Venaria, parco della Mandria).

Da questo primo esperimento si partì, successivamente, alla creazione di altre Comunità Alloggio per portatori di handicap fisico e psicofisico, utilizzando i fatiscenti locali un tempo destinati ai Reparti.

 La Comunità alloggio, oltre ad essere luogo privilegiato in cui dare espressione alle diverse personalità accogliendone le principali esigenze, doveva poter fornire strumenti riabilitativi e  risocializzanti.

Occorreva, quindi, “uscire”, rendersi visibili e “conoscere il territorio”. Veniva quindi ipotizzato un futuro collegamento tra le Comunità interne e una struttura diurna territoriale.

 Nel 1982 la dott.sa Gianara e il dott. Tavolaccini, medici responsabili della Comunità, stilano un progetto definito per la prima volta “Progetto Handicappati”, in cui ipotizzano la costituzione di tre “poli”, ciascuno composto da due comunità alloggio. Il primo doveva rappresentare il superamento del Reparto 6 delle Ville Regina Margherita, il secondo avrebbe dovuto insediarsi nel Parco della Mandria e il terzo presso la Villa del Barrocchio, in Torino.

Da questo progetto emerge la possibilità di coinvolgere le Cooperative già operanti sul territorio.

Un nuovo censimento riduce a 150 gli handicappati ancora presenti nei reparti manicomiali, di cui 55 sicuramente adatti ad una situazione comunitaria, proiettata verso una futura uscita.

L’ipotesi di realizzare un polo del progetto presso il Parco della Mandria si rivela inattuabile; si “ripiega”, quindi, sulla possibilità di costituire nuove comunità alloggio all’interno dei locali degli ex reparti (una seconda presso il 6 delle Ville, tre nell’ex reparto 18 ed una presso l’ex 21).

Le comunità alloggio dovevano essere collegate a strutture diurne territoriali

Si prevede un adeguato numero di personale e un  ulteriore potenziamento per la gestione dei cosiddetti “progetti speciali”.

 Nel 1983 tre Cooperative Sociali (Loisir, Il Margine e Il Sogno di una cosa) vennero chiamate a gestire, in collaborazione con l’allora USL 24, le prime Comunità Alloggio del Progetto Handicappati costituite nell’ex area O.P., ospitanti persone provenienti dai reparti 1, 5 e 6 di Collegno e dai reparti A2 e B4 di Grugliasco.

Le tre cooperative si assunsero da subito il compito di reperire idonee strutture esterne in cui trasferire gli ospiti.

 Dalla bozza programmatica per il triennio 1985 – 1987, redatta dal nuovo referente per il Progetto Handicappati, dott. S. Venuti, emerge il passaggio della gestione delle comunità interne agli educatori, l’intervento infermieristico viene limitato alle situazioni di emergenza medica e la comunità diventa autonoma per quanto concerne servizi quali la mensa o la lavanderia, fino ad allora fornite dall’USSL.

 Il Progetto Handicappati ora coinvolge ben sei comunità alloggio site all’interno dell’area ex O.P.

 Tra il 1985 e il 1987 si inizia ad operare al fine di realizzare le prime comunità alloggio per handicappati ex O.P. sul territorio, dando concretamente l’avvio a quella fase che Basaglia aveva già riconosciuto come necessaria alle soglie della promulgazione della Legge 180 (quindi, quasi vent’anni dopo).

 Due Comunità territoriali vennero inaugurate nel 1985, a S. Gillio (Coop. Il Margine) e a Nichelino (Coop. Il Sogno di una Cosa) come “progetto pilota”, primo passo verso l’apertura di altre comunità sul territorio, sempre intese come momento di crescita e di passaggio verso una vita più autonoma.

 Con il Capitolato Speciale del 1987 la gestione del Progetto Handicappati passa alle Cooperative Sociali, mentre l’USSL 24 garantisce un supporto tecnico e di verifica, grazie alla creazione di una Commissione tecnico – amministrativa, composta dal Referente Tecnico (il dott. Giorgio Tribbioli), da due Educatori Professionali, uno Psicologo, un’Assistente Sociale, da uno Psichiatra consulente delle Comunità e da un rappresentante dei familiari degli ospiti.

Nell’espletamento della sua funzione la Commissione collabora ed interagisce con le Cooperative.

 Nello stesso anno alcuni ospiti vengono inseriti presso la Comunità rurale di Castagneto Po.

 A distanza di cinque anni le comunità interne erano giunte a quattro e quelle esterne a sette. Le persone coinvolte, in totale, erano passate da 46 a 76.

Nel 1992 viene costituito il Gruppo di lavoro R.S.A.s. handicappati ex degenti O.P., che sostituisce la precedente Commissione Tecnico Amministrativa. All’interno del Gruppo di Lavoro, il cui Responsabile è il dott. Silvio Venuti, vengono ridistribuiti i carichi di lavoro degli psichiatri e delle altre figure professionali.

 Nel 1993 venne raggiunto l’obiettivo di uscita dai reparti dell’O.P. dell’intera popolazione handicap censita anni addietro.

Nello stesso anno nasce il Servizio Attività Riabilitative e Terapeutiche (SART) per i residenti presso l’area socio – sanitaria e per gli ospiti delle comunità per anziani (RSA).

 Nel 1994, il Capitolato speciale redatto per la gestione delle suddette comunità, prevedeva la creazione, per ciascuna di esse, di un Centro per le Attività Diurne, in cui ogni ospite potesse seguire un suo percorso riabilitativo e risocializzante.

Si pose il problema di studiare un Centro Diurno ad hoc per un’utenza prevalentemente grave – gravissima.

Nel 1996 alcuni ospiti delle comunità “Arturo e Clementina” e “Gianburrasca”, due delle sei comunità presenti nel territorio ex O.P. di Collegno, vengono trasferiti in una nuova comunità aperta sul territorio di Pralormo, gestita della Cooperativa Croma.

 A seguito dell’emanazione della L.724/94 e della Legge 662/96, la Regione Piemonte (deliberazione n. 489-14975 del 29.11.1996) adottò le linee guida per la definitiva chiusura degli ex Ospedali Psichiatrici  sulla base della rivalutazione clinica dei pazienti.

Tale rivalutazione, in base alla suddetta delibera, doveva realizzarsi attraverso la collaborazione tra gli operatori dell’ex O.P. e quelli territoriali operanti nel D.S.M. e/o del servizio socio assistenziale di provenienza dei pazienti. L’ASL di provenienza o l’Ente gestore delle funzioni socio-assistenziali avrebbero poi preso in carico i singoli casi.

In base ai risultati ottenuti dalla rivalutazione, venne disposto il trasferimento delle persone che abitavano, al momento, in “strutture non corrispondenti alla loro classificazione, tenendo conto per altro delle specifiche esigenze individuali che, laddove contrastanti, potevano anche essere anteposte all’esito delle rivalutazioni.” (7)

Con il DGR 229-23698 del 22.12.1997 la Regione prevede l’erogazione di incentivi per la presa in carico dei pazienti, stabilendo che i soggetti rivalutati nella fascia A (handicappati) e B (anziani) vengano presi in carico dall’Ente socio-assistenziale titolare del domicilio di soccorso, il quale assume la “corresponsabilità progettuale e finanziaria dei progetti di dimissione.”

 

Nella seconda fase occorreva individuare e contattare le diverse ASL di provenienza dei singoli ospiti (quelle corrispondenti all’ultima residenza prima del ricovero in Ospedale Psichiatrico) e i relativi servizi socio assistenziali che presero in carico i casi, soltanto per quanto concerne la gestione amministrativa.

Per molti degli ospiti sorsero difficoltà nella ricerca della residenza precedente il ricovero.

L’obiettivo da  raggiungere (in linea teorica)  era quello di trasferire le persone in strutture sul territorio dell’ASL di provenienza. Tale obiettivo risultò quasi da subito non essere fattibile, per la scarsa presenza di soluzioni abitative idonee e per il particolare tipo di “background” di questi cittadini, portatori di handicap gravissimi.

Nella maggior parte dei casi, vennero stipulate convenzioni con i diversi servizi socio assistenziali che, di fatto, presero in carico  le singole persone.

Il passaggio di consegne tra i diversi attori coinvolti risultò, a volte, di difficile gestione, anche a causa del fatto che i “soggetti” risultavano essere del tutto sconosciuti, facenti parte, inoltre, di una categoria, quella dei “residui manicomiali” che, a onor del vero, mette un po’ in agitazione.

 Il ruolo delle Comunità interne

 Le persone coinvolte nel Progetto Handicappati avevano conosciuto i due “periodi istituzionali”: quello dell’annullamento totale e quello dell’annullamento “umanizzato”, durante il quale vennero bandite le violenze più palesi, aperte le porte, data la possibilità di avere un abbigliamento personale.

Nonostante questo cambiamento, avvenuto già all’interno dei reparti manicomiali, rimase immutato il ruolo totalmente passivo assegnato ai pazienti.

“... entrammo in contatto con situazioni che ci segnarono umanamente e professionalmente: incontrammo pazienti abbandonati a se stessi, malamente lavati con pompe da giardinaggio e rinchiusi nelle loro stanze fin dal tardo pomeriggio. I più gravi fra questi mangiavano in una piccola stanza disadorna separati da tutti gli altri; il cibo veniva offerto loro in un’unica soluzione (primo e secondo mescolati in un’unica scodella) e nessuno sforzo veniva effettuato affinchè i pazienti utilizzassero le posate e non rubassero nei piatti altrui. La contenzione notturna, inoltre, era prassi ricorrente.”  (8)

I trasferimenti dal reparto alle Comunità per chi, come noi, li ha seguiti concretamente, davano l’impressione di trovarsi di fronte a selvaggi impauriti dalla nostra vicinanza, dai nostri interventi e dalle nostre attenzioni: si trattava di persone spesso incontinenti, che espletavano i propri bisogni fisiologici ovunque, mangiavano con le mani, strappavano vestiti e giravano nudi per i locali.

Per la prima volta alcune di queste persone condividevano la loro quotidianità con degli operatori sempre presenti, allo scopo di  riuscire a rispondere ai bisogni individuali nel modo più adeguato possibile.

Gli operatori hanno svolto un notevole lavoro per ognuno di loro, lavoro che comprendeva l’osservazione, la ricostruzione delle identità perse nei meandri dell’istituzione, il prefissarsi degli obiettivi di minima formalizzandoli all’interno di un progetto individuale.

Dalle cartelle cliniche emergevano diagnosi simili per tutti (“oligofrenia di alto grado, soggetto sudicio, pericoloso a se’ e agli altri), ma nulla traspariva della storia personale.

Durante questi anni, grazie al lavoro di tutti questi operatori, si è riusciti a ridare a queste persone un’identità, a conoscerle profondamente, a stabilire con loro dei rapporti significativi e affettivi, a promuovere la loro “capacità di desiderare”, si sono costruiti rapporti di fiducia che hanno permesso di ottenere dei risultati, si sono strette relazioni con le famiglie e, con il loro aiuto, si sono aggiunti nuovi obiettivi agli scarni progetti iniziali.

Si è cercato di favorire l’abbandono di abitudini e stereotipie apprese nei lunghi anni di permanenza nei reparti, lavorando sulla globalità della persona.

 Il collettivo operatori-utenti ha attraversato periodi di “chiusura” (simili a quelli descritti per i signori nelle “relazioni semestrali”), in cui si sentivano sempre più “strette” le condizioni di lavoro; non tutti gli interventi richiesti dai capitolati venivano condivisi dall’èquipe; gli interventi esterni, le ipotesi di “ridefinizione” delle comunità a fini progettuali o di “uscita sul territorio” venivano vissute come imposizioni dall’alto (da chi aveva una competenza legislativa e non conosceva come noi i “nostri ragazzi”, rendendoli così simili a “pacchi postali”); la frequenza del Centro Diurno sentita come l’ennesima imposizione.

 Si sono vissuti, peraltro, momenti di grande apertura verso l’esterno: ci si è dati un gran da fare per organizzare feste aperte a tutti, centri diurni visibili, attività esterne, soggiorni estivi o per cercare strutture adatte sul territorio.

 Si sono affrontati piccoli e grandi cambiamenti, se ne è discusso nelle riunioni d’èquipe e in sede di formazione, si sono stretti i rapporti di collaborazione con gli psichiatri referenti e le varie figure professionali dell’ASL, si è creata la possibilità di farci riconoscere come persone competenti e adeguatamente formate.

 Ma si è sempre portato avanti un percorso educativo. Si sono valutati i progressi di ognuno, si è tentato di rimanere su un piano di realtà, tenendo sempre ben presenti le potenzialità e i limiti individuali. Abbiamo continuato a farci carico di un intervento che diventava sempre meno educativo e sempre più assistenziale, per cause dipendenti sia dall’età avanzata e dalla specifica patologia delle persone che dal ridursi delle risorse disponibili.

Credendoci.

Questo, sicuramente, è uno dei motivi per cui, negli ultimi anni, è diventato sempre più difficile trovare degli “educatori professionali” della nuova generazione, disposti a lavorare nelle Comunità interne per più del tempo necessario a “racimolare” dei soldi per poter andare in vacanza!

 Nel suo agire quotidiano l’educatore deve poter contare su uno strato teorico ed esperienziale, ma mette in campo anche il suo bagaglio personale, il suo carattere e i suoi valori di riferimento. E deve essere in grado di raccontare la vita e il senso della comunità alloggio.

Questo, riassumendo, per voler dare ancora valore a quell’idealismo indistinto e vago che aveva spinto molti dei primi operatori  a voler “lavorare al manicomio”, certo ridimensionato, canalizzato in un “sapere educativo”, non “vocazione”, ma “sana predisposizione”.

 E’ innegabile che la Comunità ebbe il merito di aver dato particolare importanza alla dimensione di gruppo e di averne dimostrato le potenzialità di “cura”, in cui l’èquipe diventa uno strumento di lavoro indispensabile alla comprensione “dell’universo frammentato del paziente attraverso l’elaborazione delle complesse dinamiche di gruppo da cui essa viene investita e che si generarono anche al suo interno.” (9)

Nell’ultima fase delle Comunità interne, mancò agli educatori “storici” questo slancio, questa voglia di raccontare la nascita e l’evoluzione della comunità e delle singole persone.

Il tramonto delle comunità alloggio

 Introducendo un discorso più generale, non circoscritto all’area di Collegno, gran parte delle comunità avviate, si rivelarono, nel tempo, di fragile struttura: per il naturale esaurirsi dell’iniziale slancio idealistico, il venir meno di particolari figure carismatiche di riferimento che avevano vissuto e alimentato quello slancio.

Molte operarono nel mito dell’”isola felice”, rivelandosi sorde, quando non offese, alle critiche, alla necessità di inserirsi seriamente nella società, vissuta come ostile.

Il richiudersi delle comunità in se stesse, l’incapacità al cambiamento, all’evoluzione, spesso ne determinarono il loro declino.

Tutto ciò, a mio parere, è il rischio principale che corrono le comunità in cui l’utenza è prevalentemente costituita da persone anziane con handicap grave – gravissimo (i “residui manicomiali”, per intenderci).

La totale presa in carico della persona, la condivisione della quotidianità anche nei suoi aspetti più intimi o apparentemente insignificanti o “spiacevoli”, la capacità di saper leggere le sfumature, di riconoscere un minimo progresso sono solo alcune delle cause che possono spingere un sistema – comunità di questo tipo a ripiegarsi su se stesso.

Non tutti gli educatori, inoltre, sono riusciti a sostenere il loro ruolo fino alla fine dell’esperienza delle comunità.

 All’interno dell’ex O.P. di Collegno, negli ultimi anni, le comunità alloggio sentirono la “società” sempre più minacciosa e ostile, gli interventi esterni sull’assetto comunitario sempre più invasivi, disgreganti, devastanti e, soprattutto, non compresi ne’ condivisi.

E’ innegabile che l’attenzione sempre più accentrata sull’aspetto economico e sul richiamo a modelli aziendali, ha messo profondamente in discussione il ruolo delle comunità interne.

Le risorse sono andate diminuendo, pur continuando a rimanere inalterate le richieste dettate dalla committenza nei capitolati d’appalto.

Ciò ha determinato, anche all’interno delle comunità che erano riuscite a consolidarsi grazie ad un’èquipe stabile, un aumento esponenziale del turn-over, spesso letto come fenomeno del tutto normale, motivato dall’”onerosità” dell’utenza.

In realtà, dietro questo fenomeno, specie nell’ultimo periodo di esistenza delle comunità interne, si deve leggere l’espressione della demotivazione degli operatori, il non riuscire più a credere nel proprio mandato di educatore.

  

Strutture alternative all’ex O.P.

 In questi ultimi anni si sta sempre più affermando un modello “tecnicistico”, che non affronta le cause vere dei problemi, ma li legge solo da un punto di vista tecnico, concedendo largo spazio allo sviluppo di nuove forme di potere.

 Un progetto terapeutico/assistenziale/educativo viene normalmente compilato sulla base della comprensione dei bisogni della persona.

Per quanto riguarda le patologie più gravi, quelle non in grado di esprimere le proprie esigenze in modo chiaro e diretto, sembra che il progetto, in realtà, venga dettato da pressioni di tipo esterno (l’impossibilità di un rientro in famiglia, motivi politico – amministrativi...).

“L’utente incorpora fisicamente, non solo le competenze richieste al singolo operatore, ma il modello socio-organizzativo pensato dalle politiche sociali per il soddisfacimento di quel bisogno specifico.” (10)

L’esistenza di questi pazienti “senza voce” è spesso stata un continuo peregrinare da una struttura all’altra, nel tentativo di trovare quella più rispondente ai bisogni individuali.

Bisogni che, nel corso degli anni, si sono trasformati.

Come già precedentemente accennato, l’aspetto educativo ha lasciato sempre maggior spazio a quello più propriamente assistenziale.

Le figure degli operatori (Adest ed educatori) hanno vissuto questa evoluzione quotidianamente, continuando a fondare i nuovi interventi sulla RELAZIONE con gli ospiti.

 Nel nostro lavoro si parla spesso dei BISOGNI individuali degli ospiti e si tenta continuamente di trovare il modo migliore per rispondere ad essi.

“Il bisogno è un investimento affettivo in oggetti che hanno valore. Il valore è un dato culturale... In realtà ogni società, nell’insieme delle relazioni che istituisce, dei valori che conferisce alle cose e al mondo esterno, crea i bisogni e produce le risposte ai bisogni che crea.” (11)

 Come emerge dall’intervento degli operatori dei Servizi Residenziali della Provincia di Torino fatto durante il Convegno “Quattro mura di umanità” (Torino, 27, 28, 29 settembre 1984) esistono dei bisogni fondamentali  in ognuno di noi, tra i quali:

-         il bisogno di AFFETTIVITA’, di  contatti, di relazioni, giochi, fiducia e amicizia;

-         il bisogno di LIBERTA’, di movimento, di esplorazione, “di possedere spazi e oggetti, di comunicare, di esprimere il proprio stato d’animo (la contentezza, la rabbia, la dolcezza, la ribellione). La libertà è il bisogno più difficile da rispettare, soprattutto in persone che dipendono da noi come bambini piccoli”;

-         il bisogno di SICUREZZA, non solo intesa come prevenzione del pericolo, ma anche come la stabilità di una casa, la “continuità dei rapporti, la qualità del vivere, delle cure e dell’assistenza, la tranquillità di poter capire e di avere fiducia nei cambiamenti che avvengono”.

 Come in precedenza accennato, le esigenze degli ospiti delle comunità interne dell’ex O.P. di Collegno sono diventate, con gli anni, sempre più legate a bisogni primari di sopravvivenza.

Con la definitiva chiusura delle comunità interne, ultimo atto del processo di sfollamento delle aree manicomiali, si sono prospettate nuove soluzioni abitative per gli ospiti, non tanto in base ai bisogni reali delle persone, quanto al fatto di risultare o meno di competenza di una determinata ASL di provenienza (riferendosi all’ultima residenza conosciuta prima del ricovero in O.P.).

L’intervento degli educatori, all’interno delle nuove strutture,  perde buona parte dei suoi contenuti, lasciando più spazio nella gestione degli ospiti a figure professionali formate per un lavoro di tipo più assistenziale (gli Adest).

All’interno dell’ex O.P. di Collegno, nelle comunità alloggio, educatori e Adest avevano sempre lavorato in èquipe e, nonostante il diverso inquadramento (V, VI livello i primi e IV livello gli ultimi) non avevano mansioni differenziate.

Entrambi si occupavano sia degli aspetti assistenziali che della redazione di progetti individuali, delle relative verifiche e degli interventi più propriamente educativi.

Questa particolarità ha sicuramente arricchito entrambe le figure professionali.

 Nell’attuale scenario socio-assistenziale le strutture deputate ad accogliere i residui manicomiali sono essenzialmente le R.A.F. per disabili.

R.A.F. per disabili

“E’ un presidio... destinato ad accogliere in modo permanente persone disabili gravi e medio-gravi. Le suddette strutture sono finalizzate ad offrire ai propri ospiti un idoneo spazio relazionale, formativo e riabilitativo che ne migliori la qualità della vita.” (12)

Esistono due tipi di RAF:

-         tipo A: accoglie soggetti disabili adulti che mantengono potenzialità di recupero, specie sul piano socio-relazionale. I moduli abitativi prevedono la disponibilità di 10 o 20 posti letto;

-         tipo B: accoglie soggetti portatori di gravi e plurimi deficit psico-fisici, che richiedono un alto grado di assistenza che permetta loro di mantenere le abilità acquisite.

Anche in questo caso i moduli abitativi prevedono dai 10 ai 20 posti letto.

 In queste strutture la presenza delle diverse figure professionali viene stabilita in base a rigide tabelle di “minutaggio”.

Per quanto concerne le RAF disabili di tipo B con venti posti letto, ad esempio, la disponibilità, in ordine di tempo, varia dai 36 minuti giornalieri pro-capite di educatore, ai 120 minuti previsti per la figura degli Adest.

 Queste sono, in sostanza, le strutture che andranno a sostituire le vecchie comunità alloggio, con notevoli differenze nel funzionamento, nelle figure professionali coinvolte, nell’attenzione più concentrata sull’assistenza igienico-sanitaria, sulla sorveglianza degli ospiti e sulle dimensioni del gruppo utenti, decisamente più allargate.

 Ci si augura che gli educatori che andranno a lavorare in queste strutture, siano in grado di tramandare alcuni dei principi della comunità, primo tra i quali, l’importanza dell’instaurare RELAZIONI significative con altri esseri umani, ognuno dei quali portatore di esigenze diverse e titolare di una storia unica.

Che sappiano ben gestire il disagio provocato dal “fornire una prestazione” che si sente ben lontana dai reali bisogni di questi particolari utenti.

Considerando che questo non sarà un obiettivo facilmente realizzabile, valutando i limiti oggettivi, ci si augura, almeno che chi si avvicina a questo genere di professione, lo faccia ancora spinto da una buona dose di idealismo ed UMANITA’, e non semplicemente per il fatto che un breve corso di qualificazione per Adest garantisce un lavoro “sicuro”.

  

Tabella riassuntiva apertura Comunità territoriali

 

Data apertura

Comunità

Cooperativa

n. ospiti

1985

S. Gillio

Il Margine

7

1985

Nichelino

Il Sogno

8

1987

Castagneto Po

C.tà rurale

Incontro

5

1989

Via A. Doria (To) -micro ctà

Loisir-Sogno

3

1990

Torino, V. Vestignè

Il Sogno

4

1990

Acqui Terme – Ctà rurale

Incontro

5

1990

S. Gillio – micro Ctà

Il Margine

3

1990

S. Gillio – micro Ctà

Il Margine

4

1992

Ctà Via Podgora - Grugliasco

Loisir

5

1995

Pianezza – Gruppo Appartamento

Associazione auto-aiuto

8

 

 

 

 

 

  Note

 (1)               Atti del Seminario “Ricominciare ad essere”, Torino, 16-17 dicembre 1993. “Regio Manicomio” – Cronologia” a cura del dott. Giorgio Tribbioli.

 (2)               Agostino Pirella, “Bozza per un progetto di superamento degli OO.PP. di Torino” – Archivio storico Associazione Lotta contro le malattie mentali.

 (3)               Atti del Convegno “Strumenti di superamento dell’Ospedale Psichiatrico: il Progetto Handicappati”, Grugliasco, 5 novembre 1987. Intervento del dott. Maurizio Martucci.

 (4)               Atti del Seminario “Il contributo delle Cooperative Sociali al superamento dell’ospedale psichiatrico” – Collegno, 29 maggio 1998 - Intervento della “Nuova Cooperativa”.

 (5)               A. Pirella, “Premessa al primo censimento handicappati”, 1979.

(6)               A. Canedo Cervera, tratto da “Esperienze cooperative e riabilitazione in psichiatria”, atti del Convegno – Prato 5 maggio 1989.

 (7)               “Storia del Progetto Handicappati”, documento interno Gruppo di Lavoro Handicap.

 (8)               Intervento della Cooperativa “Il Sogno di una cosa” – vedi nota (4).

 (9)               E. Pedriali, “L’epopea della prime Comunità terapeutiche italiane: riflessioni a freddo” –Psychomedia.              http://www.psychomedia.it/pm/Thercomm/tcmhndx1.htm

 (10)          Duccio Demetrio, “Lavoro sociale e competenze educative”, Edizioni Nis, Roma, 1988.

 (11)          P. Barcellona, “Dallo stato sociale allo stato immaginario”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

 (12)          Deliberazione della Giunta Regionale 9 dicembre 1997, n. 34 – 23400.

 Parte III

 L’esperienza lombarda

 

Il materiale alla base di questo capitolo é stato, in parte, frutto di una ricerca effettuata su Internet e motivata dalla “curiosità” di verificare il percorso di superamento dell’Ospedale Psichiatrico in una Regione a noi vicina. 

I dati raccolti, a differenza delle mie aspettative, non sono molti, e, comunque, non sufficienti a comporre un quadro sufficientemente definito e chiaro del percorso svolto in Lombardia.

La ricerca, quindi, si é concentrata essenzialmente sui primi esperimenti di superamento dell’O.P.

 Negli anni Sessanta Diego Napolitani costituisce e dirige due comunità terapeutiche: “Comunità Omega” e “Villa Serena”.

Quest’ultima nasce grazie all’iniziativa di un gruppo di psichiatri, psicologi e assistenti sociali e si colloca tra i primi esperimenti italiani nel percorso del superamento dell’ospedale psichiatrico.

Si tratta di una comunità pubblica, fondata su un progetto rigorosamente definito, che prevede riunioni quotidiane aperte alla partecipazione di tutti, attività lavorative remunerate, attività artistiche, iniziative socioterapiche.

La tecnica di intervento rigorosamente psicoanalitica.

Questo ambiente produce nei pazienti miglioramenti sorprendenti ed immediati, ma, al tempo stesso, favorisce l’instaurarsi di un legame di dipendenza che rischia di diventare indissolubile e che rende praticamente impensabile un progetto di dimissione futura.

Nel giro di pochi anni si venne a costituire una situazione di stallo, vissuta in modo sofferto dagli operatori e che determinò l’esaurirsi di questa esperienza.

La comunità venne vissuta da tutte le persone in essa coinvolte come un’isola felice, in grado di soddisfare ogni personale richiesta e, per questo, insostituibile.

I legami “parafamiliari” avevano annullato ogni distanza terapeutica tra pazienti ed operatori.

Negli anni Settanta venne convertita in Divisione di settore dell’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, costituendo un “embrione” di quello che, in futuro, verrà chiamato Centro di Salute Mentale.

Negli anni Ottanta divenne una struttura residenziale “di lungo periodo, supportata dalla convinzione che l’obiettivo principale (la dimissione dal manicomio) fosse stato raggiunto e che altri obiettivi o progetti fossero comunque secondari. Il risultato fu che ai pazienti venne prestata sempre minore attenzione e che alla fine non ci si pose più il problema di un programma.” (1)

In questo periodo si corse il rischio che tutti gli ospiti fossero trasferiti nuovamente al Paolo Pini.

Agli inizi degli anni Novanta la comunità riprese vitalità, grazie ad un approccio meno sanitario e più centrato sulla riabilitazione e sull’acquisizione di un buon livello di autonomia.

“Il gruppo di lavoro è costituito da... operatori legati da vincoli affettivi comuni, ma individualizzati nelle tecniche e nei ruoli, fornisce una possibilità di sopravvivenza e di sviluppo, non solo per lo staff, ma anche per i pazienti che vengono pensati e fatti vivere nella mente del gruppo, oltre che nella realtà quotidiana della vita in comunità.” (1)

 L’esperienza dell’Ospedale “Cerletti” di Parabiago (Mi) si realizza tra il 1968 e il 1980, terminando con la chiusura dell’O.P. e l’avvio dell’assistenza psichiatrica territoriale. Nell’autunno del 1979, in occasione della imminente chiusura dell’Ospedale, vengono individuate le persone (lungodegenti) che non avrebbero potuto rientrare in famiglia, ne’ adottare soluzioni abitative autonome. Vennero quindi costituite due comunità nei locali dell’ex Convitto dell’Ospedale stesso, ospitanti dodici pazienti.

Nell’ottobre del 1981 la struttura ospedaliera viene definitivamente abbandonata e i pazienti trasferiti: quattro nelle comunità alloggio di Corsico e  otto in quelle di Rho.

 Negli anni Ottanta l’Istituto Psichiatrico e per disabili psichici Fatebenefratelli di S. Colombano al Lambro (Mi) avvia un progetto di conversione di un reparto psichiatrico maschile in comunità terapeutica.

I pazienti vennero coinvolti nella gestione della loro nuova “casa”, partecipando alle assemblee periodiche, prendendo decisioni di gruppo.

A differenza degli insegnamenti di Basaglia e della sentita necessità di trovare soluzioni abitative sul territorio, questa esperienza non prevede passi successivi.

“Sulla base della nostra esperienza ci sembra di poter affermare che un approccio di tipo comunitario all’interno della istituzione possa diventare una risposta adeguata agli specifici bisogni del paziente psicotico – cronico lungodegente. L’impossibilità da parte dei servizi territoriali di ipotizzare processi di reinserimento per questo tipo di pazienti all’interno della rete sociale, unitamente alle problematiche medico-internistiche dovute anche all’età avanzata, ci sembrano, infatti, i principali ostacoli nell’elaborazione di un approccio terapeutico adeguato a questa tipologia di utenza.” (2)

Mi sembra particolarmente rilevante il fatto che, in questa esperienza, si sia voluta riconoscere una “eccezione” nell’ambito del processo di superamento dell’O.P., costituita da quella fascia di utenza (i residui manicomiali) che, difficilmente, avrebbe trovato un’idonea soluzione abitativa e riabilitativa alternativa.

 

Note

 (1)               Grazia Biraghi, Edoardo Re, Marlisa Trevisan, “La Comunità semiprotetta di Villa Serena” in “La Comunità terapeutica tra mito e realtà”, a cura di A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli, Raffaello Cortina Editore, 1998.

 (2)               A. Moroni, L. Bertolotti, C. Boienti, “L’esperienza della Comunità Don Gnocchi dell’Istituto Fatebenefratelli di S. Colombano al Lambro, Mi” in “La Comunità Terapeutica tra mito e realtà” (vedi nota precedente).

  

Parte IV

Gli operatori all’interno dell’O.P.

 La Legge del 1904 (confermata successivamente da quella del 1909) riconosceva la figura professionale dell’INFERMIERE MANICOMIALE, a seguito di un corso di formazione della durata di un anno, tenuto da docenti interni allo stesso O.P.

Durante questo corso venivano impartite nozioni relative alle diverse patologie, le loro espressioni e le tecniche di controllo e contenimento. Nessun accenno alle cause del disagio, ne’ alla cura o riabilitazione.

L’articolo 34 del regio Decreto del 1909 sanciva che l’infermiere manicomiale ha il compito di “sorvegliare... assistere ai malati... vigilare affinchè questi non nuocciano a se stessi e agli altri... curare di adibirli a quelle occupazioni che dai medici fossero indicate come adatte all’indole e all’attitudine di ciascuno... eseguire le prescrizioni per la buona manutenzione dei locali... rispondendo dei malati loro affidati...”

E’ sorprendente rilevare che non esistesse un concetto di cura rivolto ai malati, ma ai locali, quasi a sottintendere che questi ultimi fossero in qualche modo più importanti. Occorreva, forse, nascondere ciò che il mondo non voleva vedere dietro una facciata che apparisse, almeno, ben curata.

E’ altrettanto sorprendente rilevare, almeno per chi in questi anni ha continuato a lavorare all’interno degli OO.PP., che questo concetto non ha ancora abbandonato del tutto una certa mentalità.

Significativa, a questo riguardo, la definizione che Etzioni da’ dell’istituzione, ossia “uno spazio fisico più o meno ben curato e organizzato, sul quale si innesta un insieme di norme e regolamenti, spesso rigidi ed opprimenti.” (1)

 Quali erano le competenze dei primi operatori che si trovarono a lavorare all’interno delle comunità site all’interno dell’area ex manicomiale?

La necessaria premessa deve, a mio parere, specificare che la filosofia alla base della creazione di questi nuclei, era quella di poter dare agli ospiti la possibilità di vivere in un ambiente il più possibile somigliante ad una CASA, in cui il rapporto sano – malato venisse profondamente rivoluzionato. “Lo spazio comunità, per tali sue caratteristiche, consente una modalità relazionale privilegiata, fra l’educatore e l’ospite, veicolata dal rapporto empatico: la relazione è diretta, non mediata dalla specificità del setting, dalle sue regole e dai suoi mandati. La quotidianità, la presa in carico dell’ospite attraverso la cura del se’ e l’attenzione per gli spazi individuali, veicolano la relazione offrendo una gamma maggiore di stimoli e di possibilità diversificate, manifestazione dei bisogni, desideri, emozioni e sentimenti.” (2)

 Cosa si intende per RELAZIONE?

Mi è parsa interessante la definizione che ne da’ M. Veronesi: “Le relazioni sono processi, ossia non hanno una loro materialità come gli elementi, pur essendo reali e possedendo concretezze e pragmatica. Attraverso le relazioni le persone si influenzano reciprocamente ed instaurano giochi, utilizzando scambi di parole, pensieri, azioni, reazioni, segni, etc...” (3).

“Se la relazione è indispensabile per la sopravvivenza, la con-divisione è indispensabile alla relazione. Come si può, infatti, stare in relazione se non si divide con l’altro una parte del proprio tempo, del proprio spazio, delle proprie esperienze, ossia una parte della propria vita?” (4)

La relazione è un processo inevitabilmente “e-ducativo” e le parti in gioco devono entrambe contribuire alla sua costruzione e alla sua crescita.

Pur non cambiando di molto le strutture abitative, la vita degli ospiti subì un radicale mutamento: i nuovi operatori, spinti sicuramente dall’idealismo, spesso senza un modello teorico di riferimento, non preparati ad affrontare le dinamiche di gruppo, a “difendersi” dal continuo contatto con la disabilità e dalle aspettative “salvifiche” del loro mandato, iniziarono sicuramente a dare spazio e a tentare di rispondere alle esigenze e ai bisogni che ognuno degli ospiti, nei limiti della loro patologia, riusciva ad esprimere.

Occorre ricordare che il “prodotto” di questo genere di patologia (unito alla lunga istituzionalizzazione, alla cristallizzazione di tempi, delle abitudini del manicomio, alla decennale mancanza di interventi finalizzati a “qualcosa”),  erano persone le cui caratteristiche rispondevano alla tentazione di una totale “presa in carico” da parte degli operatori, che spesso si sentivano loro fratelli, madri e padri, gli unici ad avere il diritto e la capacità di “decidere” per loro, perché gli unici, in fondo, a vivere strettamente in contatto con loro.

Forse l’unico modo per intervenire su queste persone, per tentare di dar loro dignità, era quello di “ricominciare da capo”, intervenendo su tutte quelle attività di base spesso considerate “banali”, esattamente come si può fare nei confronti di un neonato.

Molti degli interventi iniziali furono finalizzati a dare dei limiti ai comportamenti etero ed auto aggressivi dei pazienti.

 Per giungere ad un qualsiasi risultato era necessario creare dei rapporti, delle relazioni significative con delle persone gravemente danneggiate, che spesso non erano nemmeno in grado di parlare, per cui l’operatore doveva costantemente “indovinare” o intuire i bisogni del momento.

“Non si aveva un modello da copiare, una formula vincente da emulare, così iniziammo a sperimentare seguendo la nostra curiosità, i nostri interessi, la nostra inventiva personale”. (5)

I primi operatori erano “giovani che, pur senza esperienza riuscivano a parlare, a ridere con i matti e perciò il lavoro non era più lavoro, non c’era solo responsabilità, ma c’era divertimento, gioia di lavorare.” (6)

E’ necessario sottolineare che molti degli operatori assunti ed inquadrati, specie nel settore privato, come “educatori” non di rado non possedevano nemmeno una precedente esperienza attestata nel settore. Era sufficiente, a quei tempi, possedere una buona dose di idealismo, spirito di adattamento e, a volte, semplicemente la necessità di lavorare, per riuscire ad entrare in un servizio residenziale, specie in quelli che si occupavano di utenti anziani, fortemente cronicizzati, ex lungodegenti O.P.

Così come nel manicomio era sufficiente, per un infermiere, possedere una sana e robusta costituzione.

 Alla fine degli anni Ottanta la spinta idealistica era molto forte. Ciò che veramente contava, nell’agire quotidiano, non era tanto riferirsi a un modello teorico preciso, ma mettere in atto strategie e modalità relazionali molto forti, per ridare all’utente la fiducia nell’altro e la dignità tolta in passato.

A volte, presi dall’entusiasmo, la relazione diventava simmetrica e l’operatore veniva inevitabilmente travolto dalla sofferenza dell’altro.

Gli educatori presto sentirono l’esigenza della formazione, di acquisire strumenti precisi che potessero dare un significato all’intervento educativo, fino ad allora affidato al momento e all’improvvisazione, onde evitare che si riproducessero vuoti interventi assistenziali.

 Per chi ne sentiva realmente l’esigenza, la formazione avrebbe potuto permettere all’educatore di avere più voce in capitolo rispetto alla sua posizione sociale, più strumenti per lottare contro la mancanza di riconoscimento da parte dei politici e del settore amministrativo, per smettere di essere considerato un “tutto fare” senza competenze specifiche e “farsi piovere in testa” decisioni che riguardano il futuro suo e dell’utente, senza avere la possibilità di poterle mettere in discussione (educatori senza voce per utenti senza voce!).

 Gli operatori che si trovarono a lavorare con questo tipo di utenza hanno dovuto affinare le proprie capacità osservative per poter cogliere i mutamenti, i progressi che, in questi casi, risultano essere minimi.

Ciò crea, da un lato, la sensazione di svolgere un lavoro “pesante”, ma, dall’altro, trova nella condivisione affettiva della quotidianità, un motivo di benessere, di soddisfazione e realizzazione professionale.

In questo contesto “condivisione” significa “dividere con”, distribuire compiti e attività tra pazienti e operatori, in un percorso che prevede momenti di affiancamento e altri di delega.

 Note

 (1)                         Atti del Convegno nazionale sul ruolo delle Comunità alloggio “Quattro mura di umanità”. Torino, 27/29 settembre 1984 – “I modi di essere delle comunità”, intervento del dott. Elio Gaveglio, – Vol. I, pag.140.

 (2)                         “Storia del Progetto Handicappati” documento interno Gruppo di Lavoro Handicap ASL 5.

 (3)                         M. Veronesi “Tertium non datur”, l’operatore sociale nei processi relazionali educativi – Capodarco, Roma 1992.

 (4)                         M. O’Connor “La sostenibilità, l’impegno e l’ineluttabilità dello scambio” in Oikos n. 3/1991, Lubrina Editore, Milano.

 (5)                         Atti del Convegno “Strumenti di superamento dell’Ospedale Psichiatrico: il Progetto Handicappati”, Grugliasco, 5 novembre 1987. Intervento di Egidia Blatto, Educatrice Provinciale di Torino.

 (6)                         Atti del Convegno “A vent’anni dalla Legge 180: l’Ospedale Psichiatrico a Racconigi fuori e dentro le mura”, 21 novembre 1998. Intervento del sig. Crippa,  infermiere psichiatrico.

  

Parte V

 L’educatore oggi: un percorso dalla formazione di base ai corsi di riqualificazione, dalla pratica alla teoria e dalla teoria alla pratica.

 Gli educatori hanno sentito, nel tempo,  sempre più forte l’esigenza di vedere riconosciuta e valorizzata la loro professionalità.

            Nei secoli, l’educatore ha quasi sempre operato in situazioni in cui la vita quotidiana è intesa come spazio e metodo di educazione, ma all’interno del filone dell’educazione residenziale (collegiale o istituzionale).

            Il grande cambiamento che ha coinvolto questa figura professionale, dopo la Legge Basaglia, spostando il suo “campo d’azione”, consiste nella promozione dello sviluppo delle persone e dei gruppi non più all’interno di istituzioni più o meno totali, ma nell’ambito del loro ambiente naturale di vita.

            Nel dopoguerra italiano si iniziò a sentire l’esigenza e l’obbligo di trovare risposte adeguate e personalizzate e si tentarono i primi esperimenti di comunità residenziali di ridotte dimensioni.

E’ proprio in questo contesto che divenne necessaria la presenza di una figura pedagogica capace di muoversi all’interno di uno spazio non formale.

 Diventò così indispensabile una formazione di base e, parallelamente, vennero organizzati ed avviati i primi corsi di riqualificazione, finalizzati a fornire le basi teoriche a tutti quegli educatori che già operavano nei diversi servizi.

 Sul territorio di Torino erano presenti la Scuola di formazione per Educatori Professionali S.F.E.S. (ora SFEP), gestita direttamente dall’Ente locale dal 1968 e la FIRAS, scuola privata.

I primi corsi di riqualificazione vennero attivati con la Deliberazione C.R. 19.1.1988 n. 693-532, integrazione della deliberazione del Consiglio Regionale n. 392-2437 del 20.2.1987.

Grazie a questo documento viene autorizzata e finanziata l’organizzazione dei corsi di riqualificazione per “educatori professionali”, rivolti a chi già svolgeva questo ruolo presso strutture pubbliche e private, senza possedere il relativo diploma.

Tra i requisiti per accedere al corso occorreva essere in possesso del diploma di scuola media superiore, “anzianità di servizio a qualunque titolo di almeno due anni in rapporto di lavoro pubblico (di ruolo o fuori ruolo) o privato o con incarico convenzionale presso strutture pubbliche e private con funzioni di educatore per almeno venti ore settimanali”.

 A distanza di dieci anni, con l’emanazione del Decreto 8.10.98 n. 520, viene sancito che “l’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’èquipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico – sociale dei soggetti in difficoltà”.

 Come spiega Cristiano Castelfranchi (1), non è semplice riuscire a formare una professionalità in grado di poter sempre rinnovare o, almeno, mantenere vivi i concetti alla base della rivoluzione basagliana.

            E’ altrettanto facile, specie per chi lavora con l’handicap adulto grave, correre il rischio di costruire rapporti basati sul potere, “decidere per” e non “decidere con”, nei limiti obiettivi del caso, continuare ad espropriare la vita delle persone di cui dovremmo prenderci cura.

            L’educatore deve saper intervenire senza sostituirsi all’altro, deve saper “stare con”, stabilire un rapporto non esclusivamente finalizzato all’ottenimento di un qualche cambiamento.

            E questo, all’interno delle comunità alloggio, come dei gruppi appartamento piuttosto che delle convivenze guidate, in cui normalmente vivono persone con un buon grado di autonomia.

            L’educatore deve saper fare le cose con il paziente, senza sostituirsi a lui, anche quando la tentazione diventa forte, e coinvolgendosi quanto è necessario per non perdere di vista la qualità dell’empatia e una sana obiettività e autocritica.

            Lavorare con l’handicap, specie se grave e anziano, significa correre il rischio di veder banalizzato il proprio operato. Da un punto di osservazione esterno l’educatore diventa chi assiste, pulisce, da’ da mangiare e quindi non un professionista, ma essenzialmente una “persona buona”. L’educatore può quindi “essere indotto alla rinuncia, ad un comportamento di accettazione dell’esistente. così non si fa educazione, ma assistenza: il lavoro del formatore ... si arena nelle secche di un garantismo senza contropartita, fine a se stesso.” (2)

            Una delle fondamentali capacità degli educatori, quindi, deve essere quella di ridare un significato alle situazioni immobili: organizzare contenuti opportunatamente scelti per stimolare, provocare o far nascere un cambiamento, per “rifare il ritratto” al ricevente.

Elliott Jaques (3) illustra chiaramente che una parte importante dell’educazione, ma non per questo il suo unico oggetto, è certamente la comunicazione e l’apprendimento delle teorie. Ma è necessario fornire a figure professionali quali quella dell’educatore le basi per poter apprendere e crescere grazie alle preoccupazioni e all’incertezza, sempre presenti nel lavoro e nelle attività “creative”.

L’educatore deve saper imparare ad apprendere, aumentare le sue capacità di usare le proprie conoscenze in modo creativo per risolvere problemi sempre nuovi e, spesso, inattesi.

Alla base di una formazione educativa deve necessariamente esserci la capacità di “... imparare ad imparare, imparare a risolvere i problemi e a prendere decisioni, o più precisamente, imparare circa l’incertezza, il disagio, l’ansia connessi con la risoluzione dei problemi, il lavoro, il creare.” (3)

L’educatore professionale deve essere preparato ad affrontare l’imprevisto, il non programmato, l’evento che può mettere in discussione la “fattibilità” degli obiettivi fissati nel progetto individuale, senza leggerli come delle sconfitte, ma dandogli un senso.

Nella nostra professione è indispensabile riuscire ad elaborare continuamente gli obiettivi fissati, cambiandoli dopo essere riusciti a capire cosa non ha funzionato e perché. Nel far ciò occorre imparare che non si sta lavorando “da soli”: esiste un’èquipe all’interno della quale portare i problemi e discuterli per giungere ad una loro risoluzione e ad una nuova progettazione.

 L’”aziendalizzazione”

Negli ultimi anni si è maggiormente posto in rilievo il discorso dell’aziendalizzazione.

L’operare si orienta, almeno in linea teorica, sempre più verso la soddisfazione del cliente e la messa in atto di competenze professionali in funzione ai risultati da ottenere.

In questa prospettiva “contaminata” dal virus dell’aziendalizzazione, come sostiene anche Andrea Canevaro (4) le mansioni legate alla gestione della quotidianità potrebbero essere svolte anche da figure professionali “minori”, rispetto a quella dell’educatore. Potrebbero essere sufficienti, come base, “il buon senso e una dirigenza dei servizi esercitata con senso dell’autorità e senza troppe illusioni”, in quanto queste potrebbero far nascere “illusioni pericolose... In questo modo, il termine efficacia ha assunto più spesso un significato all’interno di un parametro amministrativo con riferimento a una istituzione neutra, senza prendere quindi assolutamente in considerazione le realtà degli utenti, con le loro possibili esigenze da scoprire pazientemente, e da presumere in diverse sfere: del piacere, dell’autonomia, della comunicazione, dei ritmi.” (4)

Nell’articolo Canevaro fa, inoltre,  un esempio a mio parere emblematico: il momento dell’igiene personale che, per anni, nel lavoro con l’handicap grave era sempre stato considerato importante e delicato nel rapporto tra educatore ed utente, viene tradotto, usando la terminologia dell’efficacia di tipo aziendalistico nel “tenere in qualche modo pulito” il soggetto.

 Le competenze

La competenza dell’educatore è, in parte, supportata da un riferimento teorico, dalla conoscenza del proprio compito e dall’ambiente in cui si svolgono le sue mansioni

D’altro canto la competenza è anche alimentata da una fonte del tutto personale ed intima: le predisposizioni individuali, il carattere, la conoscenza di se stessi, i valori cui si fa riferimento. Questi tratti contribuiscono a determinare la competenza dell’educatore, ossia la capacità di utilizzare le proprie conoscenze allo scopo di trovare soluzioni ai problemi individuati.

Lanzara parla di una “sensibilità esistenziale e cognitiva nei confronti della realtà, o di ciò che chiamiamo tale, capace di cogliere le molteplici dimensioni, e i significati, e le possibilità non immediatamente visibili.” (5)

 L’educatore deve essere in grado di agire in situazioni caratterizzate da una continua mutevolezza, difficilmente prevedibili o controllabili. Deve riuscire a collegare i cambiamenti con i passi precedenti del percorso educativo e a quelli futuri.

Deve essere in grado di ascoltare, di cogliere i bisogni del “cliente”, anche in funzioni delle norme sulla qualità del servizio fornito.

Quello che differenzia i primi educatori (non professional) da quelli di oggi è il tentativo di “dare forma e pensiero all’azione” (6)

L’educatore ha scoperto oggi di essere “un soggetto più complicato e probabilmente più sofferente, la cui creatività risulta non dall’espansione ma da un contenimento, e infine dal riconoscimento della necessità di un’illusione e della radicale insufficienza di essa.” (7)

Occorre, inoltre, imparare a raccontare l’esperienza del lavorare in  comunità, i suoi obiettivi, le sue origini e la filosofia che ne ha determinato la nascita. Una critica che viene sempre più spesso mossa agli educatori professionali, infatti, riguarda la scarsa abitudine al racconto, a lasciare una traccia scritta delle proprie esperienze.

Tra i compiti di un educatore professionale non deve passare in secondo piano il “fare cultura”, all’interno di una società che non ha ancora fatto del tutto propri i concetti basagliani.

Esempio di ciò sono i non pochi ostacoli che alcune comunità alloggio continuano ad incontrare nel farsi “accettare” da vicini di casa poco tolleranti, così come la scarsità dei finanziamenti disponibili e utilizzabili per la creazione di strutture veramente alternative all’ospedale e seriamente rispondenti ai succitati bisogni individuali.

 Lavorare in èquipe

L’educatore deve essere in grado di lavorare in èquipe. Sappiamo bene quanto sia importante che gli interventi attuati seguano una linea comune, si rivolgano sempre ad obiettivi precisi e condivisi per evitare di ingenerare confusione ed ansia.

Tutto ciò, per quanto scontato e banale possa sembrare, non è un modello operativo di facile applicazione.

La “quotidianità” in comunità alloggio è movimento e dinamismo. Coinvolge fortemente gli operatori, in quanto difficilmente “incasellabile” in protocolli di intervento chiari e validi in ogni caso.

L’operatore, quindi, è chiamato a svolgere attività diverse che “richiedono l’assunzione di funzioni organizzative diverse da parte di una stessa persona anche in presenza di una precisa distinzione di ruoli all’interno di uno staff.” (8)

Quello dell’educatore é un lavoro che coinvolge emotivamente e regala emozioni intense e, a volte, contraddittorie che devono necessariamente essere elaborate all’interno del gruppo di lavoro.

Da questa elaborazione devono nascere progetti basati sulla flessibilità e la ricerca del reale significato di quello che accade.

“L’èquipe... svolge la funzione di integrare diverse abilità individuali, di metabolizzare gli avvenimenti, di contenere efficacemente i momenti critici, conservando la capacità di muoversi come un collettivo e non come una semplice sommatoria di operatori.” (8).

L’educatore mantiene un contatto quotidiano con i pazienti e il loro disagio.

Questa situazione crea proiezioni, scissioni, identificazioni proiettive che il gruppo deve essere in grado di leggere e interpretare.

E’ determinante, quindi, poter creare uno spazio di riflessione e “ricomposizione delle parti frammentate attraverso una funzione cognitiva che consenta una miglior comprensione del paziente.” (8)

 Un codice deontologico per l’educatore professionale

L’A.N.E.P. (Associazione Nazionale Educatori Professionali) ha stilato un Codice Deontologico della professione, documento che ne riassume i tratti fondamentali e si pone come strumento di garanzia della qualità degli interventi attuati.

            Dalla lettura della bozza emerge che l’educatore professionale deve possedere, tra l’altro:

-         la capacità di rendersi conto quando ostacoli personali rendono difficoltoso o incidono negativamente sul proprio operato e, di conseguenza, la capacità di darsi dei “limiti” e decidere di “staccare la spina” almeno temporaneamente;

-         la capacità di separare la propria vita privata dal ruolo professionale, evitando di innescare pericolose dinamiche di identificazione;

-         la capacità di opporsi ai tentativi “di pressione contraria agli obiettivi professionali ed etici della propria attività.”;

-         la consapevolezza dell’importanza della propria funzione e del “potere di cui è investito”, nonché la capacità di assumerle con responsabilità;

-         la capacità di “mettere a profitto le proprie conoscenze e risorse per denunciare e ridurre ingiustizie ed abusi”;

-         l’educatore deve saper formare i colleghi più giovani;

-         deve costantemente confermare l’approccio relazionale, base del suo agire, la necessità di stilare progetti individuali e di confrontarsi con diverse figure professionali.

 Direi che la strada per l’affermazione e il riconoscimento della professionalità degli educatori, sia ancora lunga da percorrere.

 Note

 (1)               Atti del Convegno “A vent’anni dalla Legge 180: l’Ospedale Psichiatrico a Racconigi fuori e dentro le mura”, 21 novembre 1998. Intervento di Cristiano Castelfranchi, ricercatore presso l’Istituto di Psicologia del CNR di Roma.

 (2)               Duccio Demetrio, “L’educatore di professione”, Edizioni Nis, Roma, 1990.

 (3)               Elliott Jaques, “Lavoro, creatività e giustizia sociale”, Bollati Boringhieri.

 (4)               Andrea Canevaro, “Se l’educatore banalizza l’operare quotidiano”, in Animazione Sociale, aprile 2001.

 (5)               G.F. Lanzara, “Capacità negativa”, Il Mulino, Bologna 1993.

 (6)               A. Costa, “Le nuove competenze dell’educatore. Come cambia una professione” in Animazione Sociale, aprile 2001.

 (7)               P.A. Rovatti, “Abitare la distanza”, Feltrinelli, Milano 1994.

 (8)               E. Pedriali “La professionalità dell’operatore di comunità: tra funzione psicoterapica e funzione psicoeducativa”.

http://psychomedia.it/pm/thercomm/tcmh/profess.htm

  Conclusioni

Questa tesi nasce da un cambiamento.

Ho lavorato per nove anni in qualità di educatrice all’interno di una comunità alloggio sita nell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collegno.

Ho “condiviso la quotidianità” con utenti portatori di handicap psico-fisico grave e gravissimo, alcuni dei quali anziani, tutti provenienti dai reparti manicomiali, di cui, infatti, ne venivano definiti i “residui”.

Ho voluto, in questa tesi, tentare di dare un significato a questo percorso, riflettendo su quanto sia cambiata la mia professionalità, sia grazie all’esperienza che agli strumenti acquisiti con la formazione.

 E’ certamente importante acquisire una buona capacità di osservazione, pensare e utilizzare idonei strumenti di raccolta e confronto dei dati, essere in grado di elaborare un progetto, valutare attentamente le risorse disponibili e i limiti entro i quali ci è lecito agire.

 Sono convinta che “essere educatori” significhi, inoltre, saper dosare in modo sempre diverso la propria “umanità” e le proprie conoscenze teoriche, in base alla specifica situazione che si deve affrontare.

Ho affinato la capacità di ridimensionare continuamente il mio campo d’azione e gli obiettivi fissati, cercando di non perdere mai di vista i dati di realtà.

Credo che un educatore non debba mai quantificare gli “interventi riusciti” con il numero dei cambiamenti tangibili e concreti “prodotti” in un particolare utente.

A volte l’unico cambiamento ottenibile é a livello relazionale.

Il riuscire a creare un rapporto di fiducia con l’altro, il sentirsi riconosciuto credo sia, in assoluto, il risultato più importante del “fare educativo”, almeno per quanto riguarda le persone di cui ho a lungo parlato in questa tesi.

Nella mia esperienza lavorativa ho imparato che, nella maggior parte dei casi, non sarei arrivata a far diventare più autonome le persone.

Nelle comunità alloggio del Progetto Handicappati i successi educativi, per alcuni degli ospiti, erano costituiti dall’insegnare loro l’uso corretto della forchetta o nel mantenere un comportamento “adeguato” durante le uscite.

Gli educatori, grazie al “contenitore comunità”, hanno saputo costruire relazioni affettive che hanno permesso di ottenere risultati di minima dal punto di vista dell’acquisizione delle autonomie, ma che hanno indubbiamente contribuito a ridare DIGNITA’ alle persone, ad ottenere da loro piccoli cambiamenti, a contenere crisi.

Certamente l’obiettivo primario, cioè il dare la possibilità a queste persone di condurre un’esistenza più vicina alla “normalità”, é stato raggiunto, grazie alle comunità alloggio.

 Quello che mi sembra importante sottolineare é che, nel corso degli ultimi anni, gli educatori operanti nell’area dell’ex O.P. di Collegno sono stati testimoni di un importante cambiamento.

Per molto tempo, infatti, si é affermato e si é creduto che i migliori risultati, in termini riabilitativi e relazionali, si potessero raggiungere solo lavorando all’interno di piccoli nuclei abitativi.

Non a caso, infatti, le comunità alloggio prevedevano un massimo di dieci ospiti.

Come già precedentemente illustrato, l’ultima fase del superamento dell’ospedale psichiatrico, ha previsto la creazione e l’utilizzo di strutture alternative (come le RAF per disabili) in cui i “numeri” vengono di molto ampliati.

 Credo, per concludere, che gli educatori abbiano vissuto questo cambiamento come una sorta di “tradimento” nei confronti di una particolare filosofia che, per anni, aveva sostenuto e motivato i loro interventi.

Sono cosciente, comunque, che molti dei nostri atteggiamenti e comportamenti, siano stati pesantemente influenzati da profonde dinamiche identificatorie con questa particolare “materia umana”, con la quale e per la quale, ci siamo trovati a lottare e che, per certi versi, ha rappresentato e continua a rappresentare, un pezzo di noi stessi.

In definitiva, in qualche modo, ciascuno di noi, ognuno con le sue peculiarità, si é sentito un “residuo”.

 L’esperienza lavorativa mi ha reso sempre più cosciente del fatto che non sia veramente possibile comprendere qualcuno senza aver prima instaurato una relazione significativa.

Fondamento dell’agire educativo e dei progetti che ognuno di noi educatori é chiamato a stilare deve quindi essere la “comprensione e vicinanza alla sofferenza profonda del paziente.” (1)

Senza questo presupposto non si può parlare di progettualità specifica e individualizzata, ma ci si limita ad una falsa progettualità.

 L’elaborazione di questa tesi, inoltre, ha accresciuto le mie “preoccupazioni” per la sorte di tutte quelle persone che, per i motivi più svariati, non hanno potuto godere di una ricollocazione realmente rispondente alle loro esigenze, al grado di “umanità” che le nuove strutture sono in grado di garantire.

 Credo, comunque, che quello che é rimasto come traccia, segno in tanti educatori che, durante questi anni, hanno lavorato all’interno delle comunità del Progetto Handicappati, sia la consapevolezza di essere riusciti a creare dei legami con gli ospiti, e grazie a questi, di aver regalato loro un po’ di quell’umanità che l’istituzione aveva negato per anni.

 Note

1)      A. Ferruta (a cura di), “La comunità terapeutica: tra mito e realtà”, R. Cortina, 1998

Bibliografia 

 Materiale Internet

-                     “Telematica e disagio giovanile” - Relazione di tirocinio FIRAS

http://www.comune.collegno.torino.it/uffgiovani/disagio/relazione.htm

 -                     http://www.comune.collegno./to.it/csb/prima.htm

 -                     http://www.comune.collegno.to.it/csb/margine.htm

 -                     Giornata Mondiale delle Salute Mentale

“Salute Mentale: contro il pregiudizio, il coraggio delle cure”.

http://www.salutementale-oms.it/Home.htm

 -                     http://psychomedia.it/pm/thercomm/tcmhndx1.htm

1.                              “L’epopea delle prime comunità terapeutiche italiane: riflessioni a freddo”, Gustavo Pietropolli Charmet;

2.                              “Evoluzione del concetto di Comunità Terapeutica”, Gustavo Pietropolli Charmet;

3.                              “L’esperienza delle Comunità Terapeutiche Italiane. Da un’analisi storica all’ipotesi di un cambiamento”, Enrico Pedriali;

 -                                 “Ex ospedali psichiatrici: riconversione, superamento, chiusura”, Ornella Kauffmann.

http://volontariato.it/foglinrete/archiviofogli/2-2000/exop.html

 - “I principi per un modello educativo in Acinque: la Relazione, strumento creativo”, Mauro Biani

http://xxx.accaparlante.it/cdh-bo/index.htm

 -                     Codice deontologico degli educatori professionali

http://www.anep.it/professione/CD.htm

 -                     “L’educatore professionale in Italia”

http://www.anep.it/professione/storipro.htm

 -                     “Documenti Federsanità – Protocollo di intesa”

http://federsanità.piemonte.it

-               “Psichiatria: caos in Lombardia. Occorre una nuova terapia” – Comunicato stampa.

http://www.dsregionelombardia.it/press/98/rg8 0616.htm

 -               “Associazione Olinda”

http://www.associazioneolinda.org/assoc.html

 -               “La Regione Lombardia mette la parola fine ai manicomi”

http://www.grtv.it/2000/maggio2000/16maggio2000/lombardia16.htm

 -               “I familiari associati per la salute mentale di fronte alle istituzioni psichiatriche lombarde – Obiettivi, limiti, opportunità”, Zaccheo Moscheni.

http://volontariato.it/foglinrete/archiviofogli/2-2000/familiari.html

 -               Sito “Psychiatry on line”  http://www.pol.it

   Materiale fornito dalla Biblioteca Medica di Collegno

 -         Relazione annuale 1992 a cura del responsabile del Gruppo di lavoro RSAs Handicappati ex degenti dell’O.P.;

-         Relazione annuale 1993 dei responsabili del Gruppo di Lavoro R.S.A.s handicappati ex O.P.

-         Storia del Progetto Handicappati.

  Atti di Convegni e Seminari

 -   “Quattro mura di umanità”, Convegno nazionale sul ruolo delle Comunità Alloggio, Torino, 27-28-29 settembre 1984.

 -         “Strumenti di superamento dell’Ospedale Psichiatrico: il Progetto Handicappati”, Grugliasco, 5 novembre 1987.

 -         “Città ed Ospedali Psichiatrici. Dal superamento alla chiusura. Risorse s progetti”, Collegno, 7 aprile 1997.

 -         “L’intervento semiresidenziale, residenziale e ospedaliero nel trattamento psichiatrico: strategie, metodi e valutazione degli esiti”, Torino, 29 – 30 maggio 1997.

 -         “Le Cooperative sociali nel superamento dell’Ospedale Psichiatrico”, Collegno 29 maggio 1998;

 -         “A vent’anni dalla Legge 180: l’Ospedale Psichiatrico di Racconigi fuori e dentro le mura”, 21 novembre 1998.

  Testi consultati

-   AA.VV. “La Comunità Terapeutica tra mito e realtà” a cura di A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.

 -         Canosa Romano, “Storia del manicomio in Italia dall’Unità ad oggi”, Feltrinelli Editore, Milano, 1979.

 -   Basaglia Franco (a cura di), “L’istituzione negata”, Einaudi, Torino, 1968.

 

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